Le droghe e il marchio della colpa. Stigma e autostigma nelle dipendenze

Karl Schmidt-Rottluff Ritratto di Emy, 1919

Stigma è una parola del greco antico usata per riferirsi alla puntura, al marchio che si imprimeva sulla fronte degli schiavi e dei criminali. In epoca romana e più tardi, la parola fu sempre più usata per indicare la marchiatura con un ferro caldo (Jones, 1987). Nell’antichità la parola veniva anche usata metaforicamente per descrivere una permanente condizione di vergogna o ignominia, che è il significato simbolico oggi predominante.

La più importante riflessione sul concetto di stigma sul processo di stigmatizzazione è stata quella proposta dal sociologo canadese Erving Goffman. Nella citatissima opera Stigma. L’identità negata (Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity, 1963) egli descrive dettagliatamente i modi in cui gli individui stigmatizzati interagiscono con gli altri e come questa interazione è modellata dalla loro reciproca consapevolezza della presenza dello stigma.

Secondo Goffman lo stigma colpirebbe i reprobi, i soggetti pericolosi o malvagi ma anche le persone con attributi che le rendono diverse dagli altri, per difetti somatici o tratti comportamentali atipici. Macchiata dallo stigma, la persona perde la sua pienezza, appare contaminata e viene irrimediabilmente sminuita e marginalizzata (Goffman, 1963, p. 12).

Tra i tipi di stigma più comuni e persistenti troviamo quelli associati a un passato di detenzione, l’omosessualità, le dipendenze.

 

Stigma, auto-stigma ed esperienza soggettiva della stigmatizzazione

Scambler e Hopkins (1986) si sono riferiti allo stigma interiorizzato o auto-stigma come la vergogna interiorizzata e la paura dello stigma messo in atto e quindi subito. Essi suggeriscono che in alcune situazioni, l’auto-stigma può precedere e superare qualsiasi stigma messo in atto da altri.

Come dimostrato da diverse ricerche etnografiche (ad esempio: Buchanan e Young, 2000; Jackson et al.,2010), tra i consumatori problematici di sostanze l’auto-stigma è uno degli atteggiamenti più diffusi e distruttivi, sia perché lo stress e il disagio cui si associa alimenta il consumo, sia perché debilita il senso di agentività, l’autostima e la credenza nelle capacità di recupero. Questi sono alcuni dei molti perversi effetti di un certo modo di fare la cosiddetta “guerra alla droga”, che in realtà è, drammaticamente, una guerra agli individui che usano le droghe.

Tra i soggetti dipendenti intervistati sulla qualità delle relazioni con chi non consuma sono comuni descrizioni come queste: “Mi guardano dall’alto in basso come la feccia della terra e come qualcuno da evitare”; “Mi sento nervoso insieme a loro perché sento sempre che mi guardano con paura e disgusto”

Uno studio sperimentale sembra indicare che questa abitudine alle manifestazioni di disgusto da parte degli altri aumenti la capacità di percepire e discriminare questa espressione emotiva nei soggetti dipendenti.

 

L’interiorizzazione del disgusto nelle dipendenze

Martin et al. Hanno confrontato la prontezza nel cogliere e riconoscere le espressioni facciali delle emozioni (gioia, tristezza, rabbia, paura, sorpresa e disgusto) in tre diversi gruppi: tossicodipendenti, ex tossicodipendenti e gruppo di controllo. I soggetti dipendenti si sono dimostrati più lenti a riconoscere le espressioni facciali delle emozioni, ma erano significativamente più competenti e pronti a l’espressione facciale di disgusto rispetto agli ex dipendenti e al gruppo di controllo, alle persona “normali”.

 

La ricerca della normalità nell’automarginalizzazione

Sia Buchanan e Young (2000) che Jackson et al. (2010) sottolineano che la natura dolorosa di queste relazioni possono portare i soggetti dipendenti a evitare qualsiasi interazione con chi non consuma droghe come loro, ad automarginalizzarsi e in questo modo a riflettersi e riconoscersi attraverso l’immagine e il ruolo di consumatore problematica, interiorizzando perversamente lo stigma. Una parte necessaria del processo di stigmatizzazione infatti è che la persona accetti il significato sociale del suo suo stigma e che lo stigma diventi centrale per il senso che di sé.

I soggetti dipendenti possono cercare di evitare questo processo di stigmatizzazione vivendo in mondi sociali dove l’uso problematico di droghe è la norma, in comunità devianti ma in cui tutti sono pari. In questo modo paradossalmente lo stigma finisce per sostenere e rinforzare la devianza e il consumo di sostanze, proprio ciò che idealmente dovrebbe limitare.

 

Le ragioni della stigmatizzazione e i modi per attenuarla

Alfred Kubin

Le ragioni dell’estrema stigmatizzazione delle persone dipendenti sono complesse e si riferiscono a paure più vaste e profonde sulle droghe e sul consumo di droga, così come paure specifiche relative alle persone che consumano, a ciò che fanno, che è però, agli occhi del pubblico, ciò che i media comunicano.

La ricerca scientifica indica che il pericolo e la colpa sono i sentimenti che più tipicamente evocano lo stigma ed entrambi caratterizzano comunemente gli atteggiamenti pubblici verso le persone con dipendenze. Maggiore è la misura in cui i tossicodipendenti sono visti come pericolosi e totalmente responsabili per la loro situazione, più intensa è la stigmatizzazione.

Per provare ad attenuare la stigmatizzazione estrema dei soggetti dipendenti è allora necessario trovare modi per ridurre le paure esagerate verso chi consuma droghe e modificare l’opinione pubblica a proposito delle colpe dei tossicodipendenti. Occorre favorire la comprensione che la natura di certe scelte e di certe condizioni non può essere ascritta esclusivamente alla responsabilità individuale ma consegue dalla complessità irriducibile delle sorti individuali. Una trama infinita di cause ed effetti opera nella vita sin dal concepimento e in larga parte sfugge al controllo della nostra volontà. Molto dell’ordito che fa il tessuto della nostra esistenza viene inoltre teso dagli altri: chi ci fa nascere e crescere, chi contribuisce a educarci, quelli che incontriamo; e più in generale dalle idee con cui i membri della società in cui viviamo rappresentano i comportamenti e danno loro valore. Il tessuto dei nostri destini si forma così in modo casuale con fili estranei, nodi e grovigli, lacerazioni, strappi e innesti fatti da mille altre mani, spesso sconosciute e che non di rado competono per obiettivi simili a quelli che perseguiamo, con scelte, vie e mezzi che collidono coi nostri.

Per questo dovremmo capire le vite dei soggetti dipendenti evitando il biasimo, la macchia indelebile dello stigma. D’altra parte quei destini e quelle sofferenze mostrano un lato del mondo che insieme costruiamo, gli effetti collaterali dei sistemi di vita e valori che ci siamo scelti o che riproduciamo. Attraverso lo stigma possiamo nascondere quella dimensione disturbante, ma non riusciamo a rimuoverla e anzi finiamo per radicarla e esaltarla. Solo accogliendo integralmente questa realtà e cercando di comprenderla possiamo sperare di ridimensionarla e di attenuare i suoi aspetti più penosi per chi consuma e per la società.

Stefano Canali

Riferimenti bibliografici

Buchanan, J., & Young, L. (2000). The war on drugs: A war on drug users? Drugs: Education, Prevention and Policy, 7, 409–422.

Goffman, E. (1963). Stigma: Notes on the management of spoiled identity. Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall.

Jackson, L., Parker, J., Dykeman, M., Gahagan, J., & Karabanow, J. (2010). The power of relationships:
Implications for safer and unsafe practices among injection drug users. Drugs: Education, Policy and Practice, 17, 189–204.

Jones, C.P. (1987). Stigma: Tattooing and branding in GraecoRoman antiquity. Journal of Roman Studies, 77, 139–155.

Scambler, G., & Hopkins, A. (1986). Being epileptic: Coming to terms with stigma. Sociology of Health and Illness, 8, 26–43.

User Avatar

Stefano Canali

Read Previous

Pandemia COVID-19: impulso epigenetico ai disturbi mentali

Read Next

Emozioni negative e uso problematico dello smartphone

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *