Memorie e linguaggio del trauma nelle dipendenze

Nota da sempre, la relazione tra traumi subiti nell’infanzia e disturbi del comportamento sta diventando uno dei temi centrali della ricerca psichiatrica, anche alla luce delle nuove evidenze sul modo e sul peso con cui le esperienze plasmano la maturazione dei meccanismi cerebrali delle emozioni e dei processi cognitivi.

Abusi fisici, sessuali, emotivi e psicologici, contesti familiari disfunzionali, segnati da incuria o al contrario ipercura, possono deformare i bisogni di sicurezza e di accudimento, le richieste di vicinanza fisica, emotiva, di sintonizzazione affettiva che il bambino comunica (Stern, 1987).

Tali esperienze si caratterizzano per il loro potenziale traumatico, che si potrà poi manifestare in seguito, nel tempo, con manifestazioni acute di disturbi comportamentali e psichiatrici. Queste manifestazioni prenderanno forme specifiche in ogni diverso individuo in relazione ai suoi tratti biologici, alla caratteristiche della sua personalità, ai fattori educativi, ambientali e culturali in cui prende corpo il suo sviluppo, il suo diventare adulto (Tronick, 2006).

 

Trauma, neurosviluppo e sviluppo psicologico

Le esperienze traumatiche si inscrivono infatti nella dimensione intersoggettiva primaria,  modificando la costruzione e l’organizzazione dei meccanismi e dei processi psicologici, dalla percezione, alle emozioni, dall’attenzione alla memoria, alle capacità di apprendimento, autocontrollo e di regolazione del proprio comportamento (Ciulla,  Caretti, 2012).

Alberto Burri, Grande rosso.1964

Il trauma produce una ferita, una lesione sullo sviluppo del macchinario cerebrale che media la vita mentale e il comportamento e in questo modo stabilisce una debolezza, una vulnerabilità: la suscettibilità a sviluppare una certa gamma di disturbi psicologici da adulti. E questa vulnerabilità a cui il trauma espone viene generata e amplificata se i genitori (o gli altri adulti che accudiscono) falliscono nel compito di aiutare il bambino a elaborare i propri vissuti, percettivi ed emotivi. E quando i genitori non riescono a rispondere ai ritmi di esplorazione e protezione dei figli, né a regolarne gli stati affettivi, riparando alle rotture e alle incongruenze comunicative (Tronick, 1989, 2005), il bambino fatica a sviluppare la capacità di leggere autonomamente i propri stati affettivi e mentali.

Questa debolezza o deficit nella capacità di elaborazione cognitiva e di autoregolazione ostacola la possibilità di modulare – e quindi di riuscire a integrare – gli stati emotivi e gli impulsi vissuti come disturbanti, ingestibili (Mosquera et al., 2011). Ciò peraltro costringe la persona già vulnerabile e in difficoltà a usare e quindi consumare risorse psichiche per reprimere e isolare il vissuto disturbante o l’esperienza traumatica. Ne può derivare un ricorso patologico a meccanismi di difesa che affaticano cronicamente e diminuiscono le capacità di regolazione dell’Io, i livelli di competenza nella gestione degli eventi stressanti, delle sue azioni, della sua stessa vita mentale. In certi casi, inoltre, questo tipo di difesa patologica può portare il soggetto a ritirarsi in stati mentali isolati della coscienza ordinaria (Van Der Kolk, 2014). Tali esperienze dissociate di isolamento del Sé paiono configurarsi come rifugi della mente (Steiner, 1993) utili a raggiungere uno stato di transitorio equilibrio di relativa quiete, in cui trovare eventualmente uno strumento esterno di regolazione della sofferenza emotiva, del disagio vissuto ma non cognitivamente elaborato.

 

L’uso di sostanze psicoattivo come automedicazione degli effetti del trauma

L’uso di sostanze psicoattive è uno dei comportamenti più comuni a questo proposito. Alcuni degli effetti delle sostanze sulle dinamiche emotive riescono a produrre una momentanea azione di compensazione dei deficit affettivi, della difficoltà di gestire le emozioni disturbanti e della capacità di provare piacere, di sentirsi coinvolti e motivati rispetto all’ambiente e alle relazioni. Il consumo di droghe e sostanze psicoattive anche legali può per questo rappresentare una strategia di automedicazione (Khantzian, 1997) o di autocura (Kalsched, 2013a e 2013b) rispetto alla disregolazione della propria vita affettiva ed emotiva.

Molti studi hanno posto il focus sulla relazione fra dipendenze (anche comportamentali) e deficit di mentalizzazione, di elaborazione cognitiva, regolazione emotiva (Brown et al., 1999; Caretti e Di Cesare, 2005; Caretti, Ciulla, 2012; Khantzian, 1997; Taylor, Bagby e Parker, 2000; Weiss et al., 2013° e 2013b). Queste ricerche suggeriscono che nelle tossicodipendenze, gioco d’azzardo, shopping e sesso compulsivi, disturbi del comportamento alimentare, la sostanza assunta o il comportamento agito possano servire anche da modulatori emotivi. Ciò accadrebbe perché i soggetti con dipendenze patologiche soffrirebbero di un precedente deficit nella regolazione affettiva. Ulteriori studi hanno inoltre evidenziato una robusta correlazione fra abuso di sostanze e traumi conseguenti ad abusi evolutivi (Khoury, 2010), riscontrando nei soggetti dipendenti considerati nel campione delle ricerche il ricorso a meccanismi di difesa dissociativi (Schäfer, 2000).

 

Cervello e componenti somatiche, cognitive e linguistiche del vissuto affettivo

Le tecniche di visualizzazione in vivo delle funzioni cerebrali, come la risonanza magnetica funzionale, usate su persone con trauma e dipendenze sembrano indicare l’alterazione dell’attività di aree e vie cerebrali correlate alle emozioni e alle concomitanti reazioni fisiologiche, del piacere, della ricompensa, dei processi cognitivi, del linguaggio: area di Broca, insula, corteccia prefrontale dorso laterale. In particolare sembrano evidenti: 1) una diminuzione dei centri e delle vie che mediano le funzioni cogitive e di inibizione e controllo cognitivo delle emozioni e degli impulsi; 2) una attivazione delle aree e delle connessioni che mediano l’innesco delle componenti somatiche delle emozioni, delle reazioni fisiologiche prodotte dal cosiddetto asse dello stress (talamo-amigdala-ipotalamo-ipofisi-surrenale) con l’aumento del battito cardiaco, della tensione muscolare, del rilascio di adrenalina e il conseguente aumento della pressione arteriosa, del rilascio di cortisolo. I dati sperimentali sulla preponderanza di questa attivazione fisiologica rispetto alla elaborazione cognitiva delle emozioni vissute e del vissuto affettivo associato al trauma, sembrerebbero confermare la difficoltà per i soggetti traumatizzati e dipendenti ad accedere a specifici contenuti mnestici, così come a identificare, comunicare le emozioni, distinguendone la relativa attivazione fisiologica. Quest’ultimo tipo di difficoltà di comprendere e verbalizzare le emozioni viene anche detta alessitimia, un tratto psicologico che sembra associato a diversi disturbi del comportamento.

 

Trauma, alessitimia e aree mentali alessitimiche

Alcune ricerche sull’alessitimia (Sifneos 1988, 1994) sembrano rilevare che in conseguenza di un trauma psichico si possano organizzare delle “aree mentali alessitimiche”, specifiche di determinati contenuti emotivi. Vale a dire che talora un trauma può portare all’emergenza di una sfera della vita psichica in cui le memorie e le emozioni di quell’evento penoso non vengono mentalizzati, elaborati cognitivamente, rappresentati adeguatamente in modo linguistico. In queste regioni alessitimiche la componente disturbante della memoria del trauma, tuttavia, rimane sempre attuale, senza tempo, dissociata e confinata in una dimensione presimbolica e non verbalizzabile. È un quadro problematico che in qualche modo era stato perspicuamente descritto nel 1863 in una poesia di Emily Dickinson:

“C’è una sofferenza – così totale –

Che ingoia l’Essere –

Poi copre l’Abisso con l’incoscienza –

Così la Memoria può passarci

Intorno – attraverso – sopra –

Come Chi immerso nel Deliquio –

Proceda sicuro – dove un occhio aperto –

Lo farebbe cadere – Osso dopo Osso -“

 

Il trattamento degli effetti del trauma nelle dipendenze

Questa dimensione inarticolata, cognitivamente e linguisticamente primitiva va di conseguenza trattata con approcci dal basso verso l’alto, lavorando sulle componenti corporea e motoria, che invece sono fortemente disponibili e accessibili,

In questo senso, si sono rivelate efficaci le tecniche terapeutiche che usano la manipolazione creativa di materiali, per accedere ai ricordi disturbanti e modificare possibilmente le emozioni collegate a tali ricordi; oppure appropriati stimoli sensoriali e corporei per favorire l’emergere dei ricordi e la loro integrazione, con la possibilità di arricchire la rete neurale a essa collegata. Il processo terapeutico si muove dunque su tre fasi di riattivazione, riconsolidamento e integrazione della memoria traumatica, con una richiesta di feedback costanti al paziente, per agevolare l’autosservazione, l’identificazione linguistica degli stati fisici ed emotivi e la consapevolezza (Van Der Kolk, 2015).

Nei soggetti traumatizzati e dipendenti i vissuti emotivi vissuti come intollerabili possono compromettere la funzione riflessiva, cioè l’abilità di “tenere a mente la propria mente”, attivando una difesa antiriflessiva (Fonagy, 1991), che li isola in un ambito presimbolico. Quando ciò accade, ai fini della cura, appare cruciale puntare al recupero e all’integrazione dei vissuti dissociati, in un delicato e lento percorso di ritessitura semantica e linguistica, per favorire la capacità di mentalizzare, elaborare cognitivamente e regolare gli stati affettivi, in modo autonomo e non dipendente.

 

Irene Candelieri e Stefano Canali

 

Riferimenti bibliografici

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Stefano Canali

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