Quanto fa male l’alcol? Dipende da dove bevo, come bevo e dalle mie altre abitudini. Piccola introduzione alle teorie della prassi nella comprensione del consumo di alcol.

Pierre-Auguste_Renoir, La colazione dei canottieri, 1880-81

Gli effetti dell’alcol, la problematicità del suo consumo dipendono largamente da fattori di contesto, dal perché si beve, dalle routine incardinate col bere, da come si pensa al bere, da cosa si sa sul bere e sull’alcol. A dispetto di questo, la ricerca sul consumo di alcool ha tradizionalmente studiato il consumo di alcol come un comportamento isolato, una realtà a sé stante indipendente dagli ambienti reali in cui ha luogo e decontestualizzata dalle concrete e diverse azioni delle routines quotidiane, dai pensieri che accompagnano queste attività e dalle loro finalità.

Questa comune modello di spiegazione vede i soggetti bevitori come “agenti decisori”, capaci di agire in sostanziale autonomia e indipendenza dal resto delle loro abitudini, dei loro comportamenti usuali. In altre parole, per chi consuma alcol, ogni singola occasione del bere sarebbe semplicemente determinata dalla composizione di spinte motivazionali, emotive e norme soggettive contingenti, relative alla persona, al momento, al processo decisionale che si realizza in quel frangente1. La ricerca in questo senso, punterebbe all’analisi dei singoli comportamenti individuali al fine di le misurare e modellare i determinanti psicologici, seguirne il cambiamento nel tempo e identificare così strategie di intervento efficaci.  

Considerato l’andamento dei livelli di consumo di alcol, i risultati degli interventi basati su questo approccio teorico si sono rivelati assai insoddisfacenti. Recenti analisi sembrano indicare che ciò sia legato alla decontestualizzazione della ricerca sul bere dagli aspetti ambientali e dal tessuto delle concrete pratiche e delle abitudini quotidiane. Le abitudini sociali e le caratteristiche situazionali connesse al consumo di alcool hanno un profondo impatto sulla eventuale problematicità del bere e sull’efficacia delle misure di intervento. Gli approcci di studio fondati sulla cosiddetta teoria della pratica2 rappresentano un modello di spiegazione finalmente capace di integrare le dimensioni ambientali e delle prassi alla comprensione delle cause e dei fattori individuali del bere.

 

Dalla centralità dell’attore all’importanza dell’azione e delle abitudini

Le teorie della prassi3 rifiutano l’approccio ingenuo per il quale è possibile ottenere una spiegazione efficace dei fenomeni semplicemente attraverso l’osservazione delle singole attività contingenti nell’individuo. Esse allargano il focus dell’attenzione sul senso pratico e generale dei singoli comportamenti – in questo caso il bere -, sul modo in cui questi singoli comportamenti trovano posto e si integrano nelle abitudini e con la routine, sul sapere tacito che sta dietro l’esecuzione dei comportamenti specifici. Allo stesso tempo le teorie della prassi rivalutano il ruolo che le norme sociali, ma anche l’ambiente, l’organizzazione materiale dell’ambiente che rende possibile – influenzandola – l’effettiva realizzazione delle attività quotidiane.

In linea con questa prospettiva, al centro dell’indagine non viene più posto l’attore ma le azioni nel loro complesso. E le prassi che danno ritmo alla quotidianità sono intese come attività che, in continuo dialogo con il contesto, producono attivamente significato e modellano identità.

«Le prassi vengono per prime […] perché è solo dopo che abbiamo l’opportunità di apprezzare l’insieme di pratiche coinvolte nello scenario dell’azione che possiamo interrogarci su che tipo di attore o di attitudine sia resa possibile da queste specifiche condizioni»3. In questo senso per capire il bere

 

Cosa sono le prassi e quali sono le prassi importanti nel bere

Le prassi sono attività routinarie umane, tipi di comportamento caratterizzati dalla concomitanza di alcuni elementi materiali, mentali e comportamentali interconnessi fra loro nella stessa situazione. Le singole e specifiche prassi sarebbero cioè insiemi integrati “di attività fisiche, di attività mentali, cose, oggetti e loro rispettivi usi, conoscenze implicite della situazione, saper fare tacito, stati emotivi e motivazionali”4. In altre parole, abbracciando la definizione proposta da Shove e colleghi5, ogni prassi specifica dipenderebbe dall’esistenza e dall’irriducibile interconnessione di elementi materiali, sapere condiviso e competenze. Applicati al caso specifico del consumo di alcool, gli elementi integrati della prassi potrebbero essere così indicati:

  • Materiali: bevande alcoliche, discoteche, bar, bicchieri;
  • Sapere condiviso: ad esempio, in termini di significati simbolici, senso di appartenenza, trasgressione, bisogno di socialità, voglia di evasione, relax;
  • Competenze: ad esempio, mantenere lo stato di alterazione ad un livello appropriato alla situazione, avere attenzione per i rituali culturali specifici legati al consumo di alcool o, banalmente, essere in grado di aprire una bottiglia di vino.

In accordo con il lavoro di Southerton6, risulta necessario aggiungere a questo quadro una quarta categoria di elementi che assume una rilevanza critica nelle attività legate al bere:

  • Temporalità: si tratta del posizionamento temporale dell’attività di consumo di alcool rispetto ad attività relative ad altre prassi (come ad esempio, lavorare, festeggiare, mangiare, socializzare o rilassarsi).

Al contrario di quanto previsto dal paradigma epidemiologico e comportamentale standard che ha finora guidato gran parte della ricerca sul consumo di alcool, i diversi fattori di rischio non devono essere considerati come valori autonomi e indipendenti. Questo perché il bere è nella maggior parte dei casi connesso ad altre svariate attività, alcune delle quali, a loro volta, portano con sé rischi paralleli o aggravanti per la salute dell’individuo. Si pensi ad esempio a come il consumo di bevande alcoliche sia solitamente realizzato nel corso di attività sedentarie, a come sia di norma accompagnato dall’attività del fumare o del mangiare snack, oppure come purtroppo spesso sia seguito dalla guida di un’automobile.    

 

Ricadute pratiche: teoria della prassi e ricerca quantitativa sul consumo di alcool.

Lo studio sul consumo di alcol improntato dalle teorie della pratica garantisce la possibilità di indagare più a fondo i processi concreti, materiali ed ecologici, che sottendono il bere e il modo in cui cambia in un individuo e negli individui in relazione alle altre pratiche quotidiane e culturali. Questo favorisce l’individuazione di determinanti del bere invisibili al tradizionale apporccio epidemiologico, così come la rilevazione di correlazioni e dei nessi tra attività e pratiche apparentemente svincolate fra loro e apparentemente lontane dal bere.

Analizzare questo tipo di collegamenti permette, in secondo luogo, di rintracciare nuove strategie di intervento; valutando in maniera più accurata i possibili effetti legati alle misure di intervento nei diversi tipi di “soggetti bevitori”, consente di comprenderne l’efficacia (o l’inefficacia) in relazione alla dimensione contestuale. A tal proposito, la ricerca sul tema sta indirizzando in misura sempre maggiore il proprio interesse verso la specificità contestuale delle conseguenze legate al consumo di alcool, ad esempio il luogo del consumo, l’occasione, la compagnia, il tipo di bicchieri in cui si beve: fattori che condizionano la percezione soggettiva degli effetti dell’alcol, e impattano sul modo in cui l’alcol agisce sull’organismo e sul cervello, producendo eventuali danni acuti o cronici.

 

Comprendere la disuguaglianza sociale degli effetti del bere

Esaminare il fenomeno del consumo di bevande alcoliche attraverso la lente delle teorie della pratica infine rappresenta anche un utile strumento per indagare le ineguaglianze socio-culturali nell’ambito della salute, la diseguaglianza degli eventuali effetti patogeni del bere. Se, infatti, vi sono evidenze di una sostanziale differenziazione degli schemi di consumo di alcool e della diversa morbilità correlata tra gruppi di diversa estrazione socio-economica7, attualmente non si ha una chiara comprensione delle ragioni di questa diseguaglianza.

Uno studio guidato dall’approccio pratico delle teorie della prassi può offrire nuove intuizioni sui processi che producono e riproducono queste iniquità sociosanitarie, a partire dalle differenze nelle prassi e nelle culture del bere.

Stefano Canali e Serena Nicchiarelli

 

Riferimenti bibliografici 

  1. Michie, S. F., West, R., Campbell, R., Brown, J., & Gainforth, H. (2014). ABC of behaviour change theories. Silverback Publishing.
  2. Blue, S., Shove, E., Carmona, C., & Kelly, M. P. (2016). Theories of practice and public health: understanding (un) healthy practices. Critical Public Health26(1), 36-50.
  3. Nicolini, D. (2012). Practice theory, work, and organization: An introduction. Oxford university press.
  4. Reckwitz A. (2002) Toward a Theory of Social Practices: A Development in Culturalist Theorizing, European Journal of Social Theory.
  5. Shove E., Pantzar M., Watson M. The dynamics of social practice: everyday life and how it changes London: Sage; 2012.
  6. Southerton, D. (2006). Analysing the temporal organization of daily life: Social constraints, practices and their allocation. Sociology40(3), 435-454.
  7. Lewer, D., Meier, P., Beard, E., Boniface, S., & Kaner, E. (2016). Unravelling the alcohol harm paradox: a population-based study of social gradients across very heavy drinking thresholds. BMC public health16(1), 599.

 

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