Un modello computazionale per identificare le basi neurali del craving

Interrompere l’uso di una droga, di una sostanza psicoattiva e restare astinenti non sono sufficienti per il recupero da una dipendenza. In moltissimi casi infatti il problema resta in agguato, sopito, in attesa che uno stimolo, una situazione o un’immagine familiare inneschino nuovamente il desiderio, anche quando ormai la dipendenza, in senso strettamente fisico, si è esaurita da un pezzo.

 

Il desiderio delle sostanze nelle dipendenze. La natura problematica del craving

Johannes Theodorus Toorop (1858-1928), Le Désir et l’Assouvissement, 1893

Il desiderio delle sostanze nelle dipendenze ha una natura particolare. Per questo la ricerca e la clinica delle dipendenze utilizzano un concetto specifico e particolare per tentare di descriverne la natura e osservarne quindi il ruolo patologico e i correlati biologici. Questo concetto è il craving. Il concetto di craving resta teoricamente controverso ed difficile da tradurre sul piano empirico e delle misurazioni obiettive. Generalmente esso viene definito come l’intensa sensazione di desiderio, la necessità improrogabile di assumere la sostanza da cui si è dipendenti.
Abbiamo esaminato in un altro post la natura soggettiva del craving e questa particolarità rende questo complesso impervio a rilevazioni precise con parametri oggettivi. Ciononostante il craving, o ciò che, fisiologicamente e psicologicamente, può essere riferimento a questa sfumata è di fondamentale importanza per la comprensione delle dipendenze e soprattutto per il loro trattamento, in quanto rappresenta il più forte indicatore del rischio di ricadute. Una nuova ricerca pubblicata su JAMA Psychiatry [1] sembra suggerire però una possibile via d’uscita: un modello computazionale che permetterebbe di identificare i network cerebrali coinvolti nello sviluppo del craving.

“Attualmente possiamo gestire molti degli aspetti comportamentali delle dipendenze, soprattutto per quanto riguarda i sintomi fisici, ma il craving è un bersaglio difficile per la sua natura soggettiva”, racconta Xiaosi Gu, direttore della Computational Psychiatry Unit dell’Università del Texas da cui arriva la nuova ricerca. “Quando abbiamo fame, ad esempio, sentiamo il bisogno di mangiare, ma non è facile misurare in modo quantitativo con quanta forza desideriamo del cibo. Se riuscissimo a visualizzare l’attivazione del craving a livello cerebrale saremmo in grado di misurarlo e indirizzare le nostre terapie con maggior precisione”. È questo dunque lo scopo della ricerca: identificare i circuiti cerebrali responsabili del craving e distinguerli, in particolare, da quelli che mediano la ricompensa cerebrale o i comportamenti di ricerca compulsiva della sostanza d’abuso.

La differenza tra questi fenomeni è sottile, ma anche fondamentale. Tradizionalmente le ricerche sulla fisiologia del craving si sono concentrate ad esempio sullo studio della cue reactivity, la reattività agli stimoli, ovvero sull’analisi dell’attivazione dei network cerebrali di fronte all’oggetto del desiderio (sostanze stupefacenti, cibo, alcol, sigarette, etc…). In un esperimento tipo – spiega Gu – si mette un volontario (con abuso di cannabis) di fronte a un bong (uno strumento che viene utilizzato per fumare la marijuana), e si osservano le regioni cerebrali attivate dalla vista di questo stimolo. Con questo protocollo sperimentale tuttavia è impossibile comprendere se le reazioni osservate nel cervello dipendano dall’attivazione del circuito cerebrale della ricompensa, che reagisce alla vista di un oggetto collegato in passato a un’esperienza appagante (il consumo di marijuana), o se quello che si rileva è invece l’innesco del craving per la sostanza.

E infatti diversi esperimenti dimostrerebbero che la misurazione della cue reactivity, della reattività agli stimoli, non è realmente correlata con la forza del desiderio, con l’intensità del craving sperimentata da fumatori di tabacco e marijuana e dagli alcolisti. Questi risultati sottolineano come della natura e della fisiologia del craving in effetti si sappia ancora pochissimo. Non a caso gli interventi terapeutici attuali possono annullare gli effetti fisici dell’astinenza, utilizzando ad esempio terapie sostitutive come i cerotti di nicotina per i fumatori, ma possono fare ben poco per il craving. Che continua a persistere per lunghissimo tempo, portando a ricadute anche ad anni di distanza.

 

Un modello bayesiano del craving

Il modello proposto dai ricercatori texani prende in considerazione queste differenze tra craving, ricompensa e comportamenti di assunzione compulsiva, proponendo un’interpretazione “bayesiana”. Un’inferenza bayesiana è una forma particolare di inferenza probabilistica, cioè di ragionamento attraverso cui si giunge a una conclusione, a determinare la probabilità di una certa ipotesi, a partire da una serie di premesse e osservazioni. Nell’inferenza bayesiana infatti la probabilità di una certa ipotesi e quindi il grado di veridicità che si assegna a una certa credenza, alla conoscenza di un fatto, è legata al grado di fiducia che si ha sull’ipotesi stessa ed è quindi una funzione soggettiva.
L’interpretazione bayesiana avanzata da Xiaosi Gu descrive il craving come una falsa credenza sullo stato fisiologico dell’organismo. Nei soggetti con dipendenza l’uso prolungato della sostanza produce un apprendimento patologico che associa gli effetti indotti dalla sostanza alla percezione di certi stati organici, somatici e psicologici. Su questo distorto apprendimento si basano quindi le ipotesi, in questo caso implicite, inconsce, con cui un soggetto assegna un significato alle percezioni dei processi in corso nel suo organismo. E le ipotesi sul senso di queste sensazioni viscerali, interocettive sarebbe anche in rapporto alla conoscenza di altri elementi contingenti del momento in cui vengono vissute. Ciò perché gli apprendimenti patologici nelle dipendenze hanno costruito associazioni tra effetti della sostanza, stimoli interni, eventi e stimoli esterni, motivazioni, comportamenti. Per questo, chi soffre di una dipendenza può ritenere di avere bisogno di una sostanza o di essere in astinenza (sperimentare quindi un craving) anche quando ogni dipendenza fisica è ormai sparita. E viceversa: l’ottenimento di una sostanza non è sufficiente ad appagare il craving, se al contempo la persona non è consapevole di averla assunta, o si aspetta di riceverla.

Alcuni studi hanno analizzato ad esempio il craving nei fumatori, dimostrando che ricevere una sigaretta senza avere la certezza che contenga nicotina non è sufficiente per diminuire efficacemente il craving. Solo fumando una sigaretta consapevoli del suo contenuto di nicotina è possibile ridurre invece il craving al livello minimo. Partendo da questi risultati i ricercatori hanno sviluppato un modello computazionale che descrive il craving come una rappresentazione distorta del proprio stato fisiologico legata ad esperienze passate e dati sensoriali collegati alla sostanza. Mentre il craving persistente dipenderebbe dall’incapacità di aggiornare correttamente questa immagine delle proprie condizioni fisiologica: una alterazione legata al malfunzionamento dei circuiti dopaminergici causato dall’utilizzo prolungato della sostanza.

Si tratta di un modello che può essere studiato ed eventualmente confermato empiricamente, e che potrebbe permettere di distinguere le aree cerebrali coinvolte nel craving da quelle che regolano la ricompensa cerebrale e l’assunzione di sostanze. È proprio questo l’obbiettivo dei ricercatori texani: il piano è quello di rianalizzare un vasto database di scansioni cerebrali raccolte nell’ambito di ricerche precedenti gettando le basi per una precisa misurazione del craving e dei suoi effetti, e per identificare nuovi metodi terapeutici con cui contrastarne gli effetti.

 

Simone Valesini e Stefano Canali

 

Riferimenti bibliografici

[1] Gu X, Filbey F A Bayesian Observer Model of Drug Craving. JAMA Psychiatry. 2017 Apr 1;74(4):419-420. doi: 10.1001/jamapsychiatry.2016.3823.

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