Superare la dipendenza potenziando la motivazione a smettere

Una delle tecniche utilizzate nel trattamento delle dipendenze è il potenziamento motivazionale, il potenziamento della motivazione a smettere o ridurre il consumo di una sotanza. Gli interventi motivazionali sono strutturati per incrementare l’impegno a realizzare cambiamenti comportamentali e psicologici complessi, come sono quelli necessari a superare una condizione di dipendenza. Tra questi tipi di intervento, il colloquio motivazionale è la strategia più sistematica e articolata. Numerosi studi di analisi e metanalisi dimostrano che il colloquio motivazionale è una forma d’intervento efficace nel ridurre il consumo di droga nella dipendenza[1]. Il colloquio motivazionale accresce e migliora la motivazione al cambiamento attraverso l’ascolto riflessivo, conducendo il soggetto a esaminare e indagare la discrepanza tra obiettivi prefissati e comportamento attuale effettivo, supportando il senso di autoefficacia e sostenendo la produzione di affermazioni orientate al cambiamento con cui il soggetto esprime e rinforza l’intenzione di cambiare. Ne abbiamo parlato in un post precedente.

In questo post esamineremo le evidenze sperimentali sugli effetti sul consumo e sulle basi neurocognitive degli interventi tesi a motivare il cambiamento, da quelli semplici che usano messaggi veicolati attraverso i mass media, come si fa con le campagne di prevenzione e di riduzione di comportamenti problematici o patogeni (sedentarietà, fumo, cattiva alimentazione, ecc.), sino alle tecniche vere e proprie del colloquio motivazionale.

 

Il contenuto dei messaggi conta più della forma

Una prima considerazione generale va fatta sugli interventi tesi a promuovere la motivazione al cambiamento realizzati attraverso messaggi veicolati con campagne di comunicazione di massa. Gli studi sperimentali che hanno utilizzato gli annunci di pubblico servizio (PSA) dimostrano che per mobilitare un cambiamento il contenuto conta più della forma. Più dell’impatto estetico, degli effetti speciali conta la forza persuasiva degli argomenti misurata empiricamente su gruppi indipendenti [2]. Probabilmente ciò accade perché questo tipo di messaggi con argomentazioni efficaci reclutano e attivano processi mentali e cerebrali che hanno a che fare col controllo cognitivo e volontario, funzione cruciale in un percorso di cambiamento. In questi processi è infatti da un lato cui è necessario inibire la tendenza a reiterare il comportamento indesiderato e dall’altro attivare volontariamente il nuovo che si intende assumere come abitudine. Tuttavia, anche quando significativamente persuasivi, i messaggi motivanti comunicati coi mass-media danno risultati deboli se comparati a quelli adattati per fornire una comunicazione e supporto individualizzati. Ad esempio, gli annunci di servizio pubblico modificati col nome del destinatario e un breve riferimento alla sua condizione personale hanno un effetto misurabile sul comportamento legato al consumo di tabacco nei fumatori[3].

 

Quali sono i correlati cerebrali dei diversi interventi motivazionali?

Winslow Homer, Snap the Whip, 1872

Gli studi sperimentali sulle basi cerebrali degli interventi motivazionali [4-12] mostrano il reclutamento di una rete neurale deputata ai processi auto-referenziali, cioè all’analisi degli stimoli soggettivamente rilevanti e all’elaborazione di risposte strumentali. Tale sistema include e comprende diverse regioni del cervello, tra cui la corteccia prefrontale mediale (mPFC), il precuneo e le aree coinvolte nei processi di attenzione motivata e consapevole (ad esempio la corteccia cingolata posteriore, PCC). L’attivazione della corteccia prefrontale mediale (mPFC) è stata collegata all’elaborazione auto-referenziale e consapevole in soggetti sani [13]. Anomalie localizzate in questa area cerebrale sembrano peraltro associate a un deficit e una attenuazione della consapevolezza di vivere una condizione di dipendenza[14].  Similmente, il precuneo è stato collegato alla presa di prospettiva in prima persona, e all’esperienza di agentività, vale a dire la capacità consapevole di controllare il proprio corpo, la propria persona e di indirizzare gli esiti dei propri comportamenti[15]. Alterazioni nelle funzioni del precuneo sono state associate a condizioni di dipendenza[16],[17]. Infine, il coinvolgimento della corteccia cingolata posteriore suggerisce un alto livello di attenzione motivata che è tipico dei processi cognitivi avviati e controllati volontariamente con[18],[19],[20].

L’attivazione di questa rete di elaborazione auto-referenziale, in condizioni molto forti e persuasive di interventi motivazionali, suggerisce che durante l’intervento le informazioni presentate vengono cognitivamente processate con riferimento alla percezione e alla stima di sé. Significativamente, una ricerca ha sottolineato la connessione tra i livelli di attivazione del precuneo con l’intenzione del soggetto partecipante di smettere di fumare[21]. Inoltre, la maggior parte degli studi ha mostrato, durante la somministrazione di messaggi “forti”, il reclutamento della rete che coinvolge il sistema dei controlli inibitori, della regolazione dell’impulsività e dei comportamenti automatici appresi, come ad esempio la circonvoluzione frontale inferiore sinistra (IFG) e la corteccia cingolata anteriore dorsale (dACC). Ciò suggerisce che tramite l’esposizione a questo tipo di messaggi la cognizione auto-referenziale viene aggiornata in modo tale da rafforzare il controllo inibitorio. In aggiunta, i risultati di altri studi di neuroimmagine hanno mostrato il coinvolgimento delle regioni implicate nel funzionamento esecutivo (attenzione selettiva, controlli inibitori, memoria di lavoro, flessibilità cognitiva), tra cui la circonvoluzione frontale superiore (SFG)[22], e la rete neurale coinvolta nell’elaborazione semantica e verbale: circonvoluzione temporale media (MTG), circonvoluzione temporale superiore (STG) e il lobo parietale inferiore (IPL) [23],[24]. Non esistono al momento studi che indicano una ridotta attività nelle regioni connesse al circuito del piace e della ricompensa. Ciò suggerisce che non esista un impatto immediato degli interventi motivazionali sulla sensibilità alla ricompensa.

 

Conclusioni

In sostanza gli interventi motivazionali agiscono in particolare sui sistemi cerebrali implicati nell’autocontrollo e non sul modo in cui gli stimoli associati al piacere e alla gratificazione, in questo caso il consumo di una sostanza psicoattiva, attivano il sistema della ricompensa cerebrale.

Dunque, i risultati ottenuti dagli studi di neuroimmagine confermano generalmente l’efficacia delle strategie motivazionali, in particolare se erogate secondo le abilità e le tecniche del colloquio motivazionale, a partire dall’ascolto riflessivo, che pone le basi del colloquio aperto, empatico ed efficace, ma soprattutto con l’analisi e la verbalizzazione delle condizioni personali, delle precise strategie personali per il cambiamento e degli effetti personali causati dal cambiamento. Nei messaggi veicolati dai mas-media bisogna ricordare che il contenuto vale più della forma e dell’impatto estetico e questa è un’indicazione importante per chi sviluppa le campagne di intervento e per chi valuta se finanziarle e usarle. Purtroppo vediamo spesso campagne di comunicazione incentrate sulla forma estetica del messaggio.

Gli interventi più forti persuasivamente e nei contenuti migliorano i processi di elaborazione auto-referenziale, e sono associati a un rinforzo della rete del controllo inibitorio. Questo suggerisce, inoltre, che le strategie motivazionali – diversamente dalle altre strategie di inibizione cognitiva – non insegnano direttamente a controllare il desiderio, ma sembrano efficaci nel migliorare il controllo inibitorio in generale e quindi hanno anche una ricaduta più vasta per la prevenzione di tutti i comportamenti potenzialmente patogeni associati a un discontrollo, come la ricerca del rischio, i comportamenti alimentari e sessuali, la sedentarietà e così via.

Stefano Canali

 

Riferimenti bibliografici

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