Storie, narratività, dipendenze

narrativityGiunto alla sua quinta edizione, dalla prima del 1952, il  Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, DSM, redatto dall’American Psychiatric Association è ormai il principale testo di riferimento per identificare una condizione psicopatologica.

Il DSM, definisce i disturbi mentali in modo nosografico, con descrizioni dei sintomi che prescindono il vissuto soggettivo. Queste descrizioni inoltre sono elaborate su base statistica. I sintomi di un disturbo sono cioè tali solo se tra di essi esiste un numero di correlazioni e associazioni statisticamente significative.

Dalla sua prima edizione il DSM è stato oggetto di numerosissime critiche, molte delle quali hanno riguardato l’uso di sostanze psicoattive e le dipendenze. Torneremo più volte sugli aspetti problematici del DSM, in questo post ci soffermiamo su un aspetto particolare che John Z. Sadler ha definito l’iponarratività[1]. È un termine involuto con cui Sadler intende sottolineare che in questi manuali diagnostici le storie delle persone e il racconto di tali storie giocano una piccolissima parte. I disturbi del comportamento, e quindi le dipendenze, sono descritti come una collezione relativamente ristretta di comportamenti ed esperienze molari. A dire il vero esiste nei DSM una precisa attenzione verso la storia del disturbo, per la sua temporalità, per il modo in cui si sviluppa nel corso del tempo, per il cambiamento dei suoi segni e dei suoi sintomi, per l’evoluzione dei correlati fisiopatologici di queste manifestazioni. Si tratta però in tal caso di un interesse verso il corso longitudinale del disturbo, dal momento in cui i sintomi si sono manifestati alla eventuale guarigione oppure al modo in cui cronicizza. Il disturbo viene così inquadrato come se fosse un’entità discreta, un organismo autonomo che a un certo punto irrompe dall’esterno e vive la sua vita secondo sue proprie leggi ontogenetiche. E’ un modo descrittivo che ripropone per molti versi il modello epistemologico proprio delle antiche concezioni demonologiche della malattia come ens morbi.

Quei pochi aspetti della storia incorporati nei criteri diagnostici dai DSM campeggiano come frammenti scongrui di una vita vissuta, che è invece trama complessa, un intreccio che si riflette sul soggetto, sul suo corpo e sulle sue azioni soprattutto in quanto storia sottoposta a costante e rinnovata narrazione. E i dettagli di questa storia e i suoi racconti nel tempo sono all’origine di un disturbo, indicano come i fatti si sono distillati in esperienze, come era un individuo e come è diventato ciò che è al tempo della diagnosi. La storia di un individuo e il modo in cui egli racconta la sua storia o la sente narrare sono fondamentali per capire come mai è diventato dipendente, in che modo la sua storia e i relativi racconti possono condizionare lo sviluppo futuro di questa condizione. La sua storia e le sue narrazioni sono inoltre preziose per comprendere come intervenire in clinica, come aiutarlo a recuperare il controllo.

Ma la biografia non ha posto nelle diagnosi del DSM e ancor meno i significati che un individuo dà agli eventi della sua vita. Non esiste spazio per la narrazione della temporalità dell’Io la quale invece è una dimensione che si organizza attraverso i valori e le interpretazioni. L’impatto della storia, dei fatti concreti, nella sedimentazione degli eventi della intricata rete causale che ha portato alla dipendenza, è infatti mediato dal racconto, dal modo in cui un individuo narra la sua storia, dai valori e dagli scopi con cui misura l’importanza relativa degli eventi e delle relazioni che ha attraversato e vissuto.

L’approccio del DSM entra allora in grave contrasto con il nuovo e ormai prevalente modello di concettualizzazione delle dipendenze come perdita del controllo volontario del comportamento.

Come suggeriscono le neuroscienze cognitive, il controllo volontario del comportamento, e quindi anche la sua compromissione, dipendono largamente dai valori, dalla rete delle rappresentazioni attraverso cui un individuo misura e compara nel presente e nel tempo gli stimoli interni, l’ambiente, i suoi bisogni, gli appetiti, le ricompense e le punizioni che hanno seguito le sue azioni. È dentro a un sistema cognitivo che codifica norme e azioni sulla base di proiezioni avanti e indietro nel tempo, di memorie e di piani per il futuro, che un impulso, una compulsione, come quelli legati alla condizione della dipendenza, possono trovare una modulazione, un eventuale imbrigliamento. Sono peraltro ormai innumerevoli gli studi che dimostrano il ruolo delle rappresentazioni simboliche, linguistiche, dei processi cognitivi mediati dalla corteccia prefrontale, nella modulazione e nell’inibizione dei centri profondi, amigdala, accumbens, striato, da cui dipendono i comportamenti impulsivi e compulsivi[2].

Ma i valori, la rete di rappresentazioni, la loro reciproca codificazione sono realtà temporali, nodi, prospettive e significati che vivono nella storia, dentro a una vita e attraverso la narrazione. Il valore con cui si computa un impulso, un desiderio, anche quello descritto come irresistibile del craving, sta nel rapporto che la rappresentazione della loro realizzazione – non questa come realtà oggettiva – ha col futuro e nel legame col passato. Ma questo rapporto sta solo dentro a una biografia, all’interno di una narrazione.

La dipendenza sembra il perfetto paradigma della patologia della scelta intertemporale. Decidere tra una ricompensa prossima, consumare una sostanza adesso, e un valore futuro, i beni che si potranno eventualmente ottenere un domani grazie all’astinenza. E ancor più delle decisioni che riguardano valori sincronici (questo o quello ora), le preferenze e le scelte nel caso delle dipendenze scaturiscono dalle esperienze, dalle attese e dagli obiettivi futuri rispetto al presente e in rapporto a un passato. Più esattamente, le scelte intertemporali derivano dal rapporto tra le rappresentazioni degli obiettivi futuri e le descrizioni del presente e del passato: dipendono cioè dalle storie e dalle narrazioni con cui comprendiamo e immaginiamo la nostra vita.

Certo è chiaro che il DSM è uno strumento per fare diagnosi e la diagnosi, in quanto dispositivo per conoscere, per distinguere e quindi agire, è uno strumento per formulare classificazioni. Classificare significa astrarre, descrivere alcuni aspetti caratteristici che accomunano certe storie e certi individui. Una diagnosi, come quella per il disturbo da uso di sostanze, è così un costrutto operativo che giocoforza deve tagliare via i dettagli, il continuum sfumato dei particolari e delle loro minute e reciproche interazioni nel tempo che invece rappresentano la sostanza della vita e delle malattie.

Tuttavia l’enfasi, anzi la focalizzazione, sulla prospettiva categoriale e descrittiva della diagnosi propria del DSM ci consegna un individuo astratto, una giustapposizione di segni e sintomi e una successione di istantanee in cui essi vengono fissati in un tempo conchiuso e fuori da ogni racconto, senza memoria e senza valori: qualcosa di drammaticamente irreale, con cui diventa difficile, se non impossibile, interagire. Ma purtroppo, nella mente e nella condotta di chi cura, l’individuo descritto dalla diagnosi tende a trasformarsi nell’idea di persona, nell’essere umano che si vorrebbe aiutare. Ma come è possibile sostenere un soggetto senza biografia? E soprattutto, facendo a meno della narrazione, come è possibile assistere un soggetto dipendente che chiede aiuto? Qualcuno cioè che soffre principalmente a causa della dolorosa e ingovernabile oscillazione delle rappresentazioni di sé nel tempo, di ciò che sente di essere e di ciò che vorrebbe incarnare: una persona che patisce per le contraddizioni, le ambiguità, gli incontrollabili ribaltamenti dei significati e degli ideali della sua storia.

[1] Sadler JZ, Values and Psychiatric Diagnosis, Oxford University Press Oxford, New York, 2005.

[2] Ad esempio: Lieberman MD, Eisenberger NI, Crockett MJ, Tom SM, Pfeifer JH, Way BM. Putting feelings into words: affect labeling disrupts amygdala activity in response to affective stimuli. Psychol Sci. 2007 May;18(5):421-8; Constantinou E, Van Den Houte M, Bogaerts K, Van Diest I, Van den Bergh O. Can words heal? Using affect labeling to reduce the effects of unpleasant cues on symptom reporting. Front Psychol. 2014 Jul 22;5:807; Burklund LJ, Creswell JD, Irwin MR, Lieberman MD. The common and distinct neural bases of affect labeling and reappraisal in healthy adults. Front Psychol. 2014 Mar 24;5:221.

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Stefano Canali

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