Hashishen tra storia e legenda

La fortezza degli Assassini ad Alamut, miniatura persiana del XV secolo.
La fortezza degli Assassini ad Alamut, miniatura persiana del XV secolo.

Gli arabi appresero l’uso della canapa dall’India, dalla Persia e dalla letteratura greca ed introdussero tale sostanze nella loro articolata farmacopea e nell’armamentario delle piante dispensatrici di voluttà ed evasione. La canapa era tenuta in grandissima considerazione. Hashish in arabo significa erba, anzi è l’erba per eccellenza, come se l’attività psicotropa della pianta costituisse la chiave definitoria dell’intero regno vegetale.

Sebbene mai esplicitamente menzionata, la canapa è protagonista della vicenda leggendaria del “Hassan-i Sabbah.” e della feroce setta dei suoi assassini narrata da Marco Polo nel Milione, una storia che ha stimolato per secoli l’immaginario occidentale, soprattutto quello dell’epoca Romantica. Numerose ed antiche sono le varianti narrative di questa storia. Il primo resoconto testuale ci viene dalla Chronica Slavorum dell’abate Arnoldo di Lubecca, nel XII secolo. Arnoldo racconta che l’imam Hasan, infallibile ed onnipotente capo della città fortezza di Alamut, si serviva dell’hashish per arruolare dei giovani e renderli privi di volontà e assolutamente dipendenti da lui, in modo tale da spingerli nelle imprese più pericolose, non escluso l’omicidio. Il termine “assassini”, con cui si indicavano in Europa i componenti di questa devotissimo corpo armato di vendicatori, derivava dall’arabo hashishen, cioè dediti all’erba. Hasan infatti dava loro l’hashish per indurre estasi e visioni fantastiche e, armandoli di pugnale, prometteva che quelle gioie sarebbero diventate eterne se essi avessero eseguito i suoi ordini.

Nella versione di Marco Polo, invece, Il “Veglio della montagna” aveva realizzato in una valle tra due montagne «lo più bello giardino e ‘l più grande del mondo», fedele riproduzione terrena dell’aldilà maomettano. Qui venivano fatti svegliare, dopo un sonno estatico provocato con un erba, i sicari scelti per le missioni delittuose. Si faceva loro credere che quello fosse il vero paradiso di Allah, e che avrebbero potuto viverci per sempre se solo avessero obbedito a tutti gli ordini del “Veglio”.

Gli assassini divennero in seguito le più temute e combattive compagnie militari inquadrate negli eserciti arabi che lottarono contro i crociati. La loro dedizione assoluta era richiamata dai trovatori provenzali che magnificavano la fedeltà all’amata nell’amor cortese. Anche l’Ordine dei Templari, istituito poco dopo il 1100 a protezione dei viaggi in Terra Santa, sembrerebbe aver mutuato simboli e modalità associative dagli assassini.

Il riferimento all’erba usata per plagiare gli assassini è presente nell’ottava novella della terza giornata del Decamerone di Boccaccio. Un abate, per intrattenersi con la moglie, faceva qui bere all’ingenuo marito, Ferondo, una pozione fatta con «una polvere di maravigliosa virtù, la quale nelle parti di levante avuta avea da un gran principe, il quale affermava quella solersi usare per lo Veglio della Montagna, quando alcun voleva dormendo mandare nel suo paradiso o tràrlone»[1].

L’uso di una sostanza di nome benji, assai somigliante alla canapa nell’aspetto e negli effetti, ricorreva spesso anche negli intrighi narrati dalla bella Sheherazade nelle Mille e una notte. Stranamente essa serviva per addormentare mariti e allo stesso tempo per ravvivare gli ardori e gli slanci degli amanti.

Nel mondo arabo la canapa tuttavia non rappresentò soltanto lo strumento per assoggettare le persone e per portare facilmente a termine gli intrighi amorosi. L’hashish era infatti la chiave di volta della mistica e della pratica spirituale nel sufismo e dei dervisci, usata per sopportare le lunghissime sedute di meditazione e per sperimentare, nell’alterazione delle facoltà mentali, il kif, la felicità e il riscatto eterno attesi dal credente.

[1] Boccaccio, Decameron, UTET, Torino, 1956, p. 344.

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Stefano Canali

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