L’oppio dal Medioevo alla fine del Rinascimento

L’oppio è stato un elemento fondamentale della farmacopea della grande scuola medica araba. In essa si approfondirono in maniera sistematica le osservazioni e le indagini sugli effetti di questa sostanza, a tal punto che il filosofo e medico Avicenna (980-1036), la cui morte si ipotizza dovuta ad un’eccessiva dose di oppio, nel Canone arrivava finalmente a gettar luce anche sui danni psicologici e fisiologici provocati dal derivato del papavero e a descrivere chiaramente per la prima volta il fenomeno della dipendenza.

La tradizione araba filtrava poi nella medicina occidentale, favorendone la rinascita e con essa veniva riscoperto l’uso dell’oppio. Nella scuola medica salernitana, dove si operò la saldatura con l’antica medicina greco-romana e si inaugurò per la prima volta nell’Europa medievale l’insegnamento medico, si tenevano in gran conto le virtù anestetiche di una spongia somnifera imbevuta d’oppio, giusquiamo, mandragola e canapa.

Al tramonto del Medioevo, con la diffusione dei rituali magici e delle pratiche iniziatiche collettive, il ricorso a miscele vegetali con proprietà psicotrope si faceva massiccio. Unguenti delle streghe erano denominati tali preparati, con essi ci si doveva spalmare per partecipare ai sabba e perdersi, nella totale anestesia, in deliri tossici ed allucinazioni. In queste droghe l’oppio era un costituente fondamentale assieme ad altre sostanze stupefacenti e psichedeliche come la canapa, la mandragola e la belladonna.

Agli inizi del Cinquecento, nel periodo più nero della crudele “caccia alle streghe” scatenata dall’Inquisizione, la conoscenza degli effetti stupefacenti dell’oppio era tale da indurre alcuni medici ed umanisti, come Andrés Fernandez de Laguna, Gerolamo Cardano e Giambattista Della Porta, a spiegare l’allucinata e malefica fenomenologia della stregoneria con l’azione di tale sostanza e di altri principi psicoattivi. La conoscenza dell’oppio, in questo senso serviva a naturalizzare un ambito delle pratiche e delle tradizioni magiche, e, di riflesso, a liberare in parte dalle superstizioni, dal sospetto e dalla menzogna l’atteggiamento con cui si guardava alla malattia mentale.

Nello stesso periodo l’oppio veniva assunto dagli alchimisti per stimolare la creatività e l’immaginazione necessarie alla realizzazione della “grande opera”, nella ricerca della pietra filosofale e dell’acqua di gioventù. Lo stesso Paracelso, il principe degli alchimisti, attribuiva i suoi successi ad un preparato a base d’oppio, il laudano, che egli stesso aveva elaborato a partire da un elettuario del medico veronese Fracastoro: «Io possiedo un farmaco arcano che è superiore a ogni cosa mortale».

Il Cinquecento era anche l’epoca dei viaggi, delle prime esplorazioni e delle prime vere osservazioni antropologiche ed etnologiche. Comune tra i resoconti erano le descrizioni dell’uso dell’oppio da parte dei popoli orientali e tra questi i Turchi erano senza esitazioni riconosciuti come i maggiori consumatori. Il naturalista francese Belon annota nel 1546 che «non v’è turco che non spenda il suo ultimo soldo per comperarsi dell’oppio, che porta seco in tempo di pace e in tempo di guerra. La ragione per l’uso dell’oppio è che essi sono convinti che diventano così più coraggiosi e arditi e temono meno i pericoli della guerra. Quando c’è la guerra, vien comperata una tal quantità di oppio, che non se ne trova più in tutto il paese.» Mentre il medico e naturalista tedesco Leonhard Rauwolf così descriveva nel 1573 il bazar di Aleppo: «anche qui si trova dai farmacisti l’oppio, che i locali chiamano però ofiun. I Turchi, i Mori, i Persiani e molti altri popoli lo prendono abitualmente, ma non lo prendono solo quando devono lottare e combattere contro i nemici, per non pensare alla morte e darsi coraggio, ma anche in tempi di pace, per mettere a taceere le ansie e le brutte fantasie, o almeno per attenuarle.»

Tra Cinquecento e Seicento l’oppio era ormai un topos dell’immaginario europeo, tanto che nella letteratura inglese il riferimento a tale sostanza costituiva una sorta di pretesto narrativo, una chiave simbolica, per la l’analisi e la descrizione delle lotte umane contro le tristezze e le sofferenze, contro i ricordi angosciosi, ma anche un elemento fondamentale nell’invenzione e nello sviluppo del racconto di intrighi e illecite macchinazioni. Nel Jew of Malta, Marlowe scriveva: «Bevvi del papavero e del succo di mandragola […] Quando dormivo, pensavano che fossi morto del tutto». Shakespeare nell’Otello definiva l’oppio «il soporifero sciroppo del mondo». Mentre Milton ricordava l’uso del pharmakon nepenthes da parte di Elena, che Omero aveva narrato nell’Odissea.

A proposito dell’oppio e delle sostanze da esso derivate, Thomas Sydenham, uno dei più grandi medici inglesi del secondo Seicento, scriveva: «Non posso trattenermi dal ricordare con gratitudine la bontà dell’Essere Supremo, che li ha dati all’umanità come sollievo; nessun altro rimedio è altrettanto potente nello sconfiggere un gran numero di malattie, o addirittura nello sradicarle». Un allievo di Sydenham, Thomas Dover, elaborava un preparato contro la gotta a base d’oppio, liquirizia, salnitro e ipecacuanha, la polvere di Dover, che diveniva uno dei farmaci più usati del XVII secolo. La polvere di Dover andava sciolta in un bicchiere di latte caldo cagliato con vino bianco e presa prima di andare a letto. «Coprendosi bene e bevendone dalle due alle tre pinte, in modo da sudare molto, in due o tre ore al massimo, il paziente non avvertirà più il dolore», assicurava la formula illustrativa scritta da Dover stesso.

Immagine: Un vaso albarello per la teriaca, Italia, 1641.

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Stefano Canali

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