L’oppio nell’antichità

Oppio storia 2Documenti Sumeri che risalgono al 4000 a.C. testimoniano come l’essere umano, sin dall’alba della scrittura, facesse uso dell’oppio. Hul Gil, pianta della gioia, in tal modo suona l’ideogramma sumero per papavero, dimostrando come in questa antica civiltà si fosse già così bene individuato il potente effetto psicoattivo di tale sostanza.

In uno dei papiri di Ebers, databile intorno al 1550 a.C., invece è presente la descrizione di un preparato a base d’oppio, grani di pianta Shepenn ed escrementi di mosca, utile come medicamento e come calmante per i bambini. L’Egitto fu una delle tappe fondamentali per la diffusione dell’oppio verso Oriente e in seguito nel bacino del Mediterraneo. Dall’Egitto, infatti, la coltivazione del papavero si estendeva all’Asia minore. L’importanza che l’oppio ebbe in questa regione è peraltro attestata da alcuni toponimi. Esisteva, ad esempio, una città, Afrorum Kara Hissar, il cui nome significava “Fortezza nera dell’oppio”. Dall’Asia minore l’uso dell’oppio si diffuse infine nella culla della cultura Occidentale, in Grecia e da qui infine a Roma. Nell’Odissea, Omero evocava lo straordinario potere sull’umore di alcuni preparati, presumibilmente a base d’oppio. Telemaco, alla ricerca del padre, si reca a Sparta alla corte di Menelao. Qui, durante un banchetto ricorda commosso gli eroi scomparsi e soprattutto Ulisse, suscitando tra i presenti una profonda tristezza e malinconia e inducendo Elena a versare nel cratere da cui si attingeva il vino un pharmakon nepenthes per dissipare entrambi:

«Nel dolce vino, di cui bevean, farmaco infuse contrario al pianto e all’ira,
e che oblio seco inducea d’ogni travaglio e cura,

chiunque misto col vermiglio umore nel seno il ricevé,
tutto quel giorno lagrime non gli scorrono sul volto,

non se la madre o il genitor perduto,
non se visto con gli occhi a sé davanti fligio avesse o fratel di spada ucciso
».

Odissea, IV, 219-228

Gli effetti dell’oppio erano molto ben conosciuti dai naturalisti greci e romani, come testimoniano le opere di Teofrasto, Plinio e Dioscoride, tanto che vi era già qualcuno che ne sconsigliava l’uso, come Erasistrato. L’oppio era poi usato nei culti ufficiali, come quello di Demetra. Il mito racconta come la dea della terra feconda, sorella di Zeus, usasse il papavero per alleviare il dolore provocatole dal rapimento della figlia Persefone. Per questa ragione, il papavero veniva collocato immancabilmente tra le spighe di grano che Demetra tiene in mano nelle raffigurazioni, veniva usato nelle decorazioni dei suoi altari e costituiva l’insegna delle sue sacerdotesse. Il papavero è spesso presente nelle mani di Morfeo, dio del sonno, mentre Nyx, dea della notte, dispensava papaveri agli uomini. Anche Hermes, in talune rappresentazioni, si fa avanti con un papavero, quando arriva a recare il sonno ristoratore e la fantasia dei sogni.

Anche Virgilio nelle Georgiche elogiava i papaveri, dispensatori di sonno leteo, mentre nell’Eneide raccontava come il drago posto a guardia del giardino delle Esperidi venisse placato «dandogli il papavero soporifero, con miele stillante». Luciano figurava un bosco di papaveri e mandragola a protezione dell’Isola del Sogno. Plinio descriveva la preparazione ed il consumo del papavero tra gli “antichi”: «Il papavero veniva arrostito e servito come dolce con il miele. Lo si sparge anche sulla crosta del pane di campagna e ci rimane attaccato con l’aiuto di un po’ d’uovo che ci viene messo sopra.»

L’oppio era presente in moltissimi tipi di pozione (teriaca) messi a punto dai medici greci e romani. Nel philonium di Filone di Tarso, usato per le coliche e la dissenteria, che conteneva zafferano, piretro, euforbia, pepe bianco, giusquiamo, valeriana, oppio e miele; nel diacodion di Temisio di laodicea, composto da capsule di papavero, mirto, ipocisti e miele; nel catapotium di Aulo Cornelio Celso, un calmante preparato con calamo, semi di ruta, castoreo, cinnamono, oppio, mandragola, mele secche, loglio e pepe. La teriaca più famosa ed usata fu tuttavia quella elaborata da Andromaco il Vecchio, un cretese, medico alla corte di Nerone: il galenos (soave). Questa pozione conteneva oltre all’oppio altri sessantatre ingredienti, tra cui la carne di vipera. La preparazione del galenos era piuttosto complicata e doveva essere eseguita seguendo un procedimento estremamente accurato. Gli ingredienti di questa teriaca, che provenivano da tutti i paesi del mondo allora conosciuto, venivano rimestati e mescolati per settimane, per esser poi lasciati invecchiare almeno dodici anni. Il galenos era raccomandato come una infallibile panacea. Il più grande medico dell’antichità romana, Galeno, prescriveva tale pozione diluita in alcool, per una serie incredibile di disturbi, tra cui sintomi di avvelenamento, cefalee, sordità, problemi di vista, epilessia, febbre, sordità e lebbra.  Con questa pozione, stemperata in abbondanti dosi di miele, Galeno curò il più eminente dei suoi pazienti, l’imperatore Marco Aurelio, sino a farlo divenire dipendente dall’oppio, come testimoniano i resoconti clinici compilati dal medico. Secondo un interprete, l’oppiomania di Marco Aurelio si rivelerebbe in alcune immagini dei Ricordi, specialmente in quelle che descrivono l’infinità essenziale del tempo e dello spazio, o in quelle in cui si intende enfatizzare i limiti e le bizzarrie della percezione umana.

Al galenos fecero ricorso anche Nerva, Traiano; Adriano, che lo usò per sopportare il dolore della scomparsa del suo amato Antinoo; Tito, che forse morì per averne assunta in dose eccessiva e Cornelio Nepote, che confessò di essersene servito per uccidere il padre.

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Stefano Canali

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