L’uso di sostanze come automedicazione

Jean Béraud, I bevitori, 1908
Jean Béraud, I bevitori, 1908

È possibile immaginare l’uso di sostanze psicoattive, un comportamento potenzialmente problematico e talora distruttivo, come una forma di automedicazione, cioè il tentativo che un individuo mette in atto per curare una condizione di sofferenza psichica, per provare ad autoregolare emozioni troppo acute o disturbanti? Secondo l’ipotesi dell’automedicazione questo è invece l’elemento centrale nell’avvio all’uso delle sostanze in grado di modulare i processi mentali.

Questa ipotesi ha ormai una lunga storia ma recentemente sta trovando interessanti sviluppi nella ricerca di base, con evidenze neurofarmacologiche coerenti ai processi causali immaginati[1]. L’ipotesi dell’automedicazione, è stata formulata negli scorsi anni Settanta Edward Khantzian e David F. Duncan[2]. Ma è stato soprattutto Khantzian, docente di psichiatria ad Harvard, a svilupparla negli anni successivi, descrivendola per l’eroina, poi per la cocaina e infine generalizzandola a tutte le sostanze psicoattive ad eccezione della cannabis[3].

Nelle prime formulazioni esposte da Khantzian l’approccio psicodinamico era prevalente. In questa prospettiva i consumatori problematici di sostanze venivano concettualizzati come individui con deficit nelle funzioni dell’Io. La ricerca della droga sarebbe in questo senso un tentativo di potenziare i meccanismi di difesa dell’Io. Conseguentemente, la scelta della sostanza psicoattiva non è casuale, ma risponde alle specifiche esigenze di difesa e compensazione psichica dell’Io. La selezione della sostanza è dettata così dall’interazione tra gli stati affettivi disturbanti che il soggetto cerca di alleviare e le proprietà farmacologiche della sostanza stessa, ad esempio un temperamento ansioso finirà per scegliere una sostanza con effetti inibenti, come le benzodiazepine, oppure gli oppioidi.

David Duncan invece ha sviluppato una interessante teorizzazione dei fattori comportamentali e dei meccanismi di apprendimento associativo, di condizionamento operante, in gioco nelle dipendenze, come il rinforzo e la punizione. L’uso problematico delle sostanze, secondo Duncan, sembra caratterizzato da alcuni aspetti degli apprendimenti associativi non presenti nei consumatori occasionali. Rinforzi positivi che operano più fortemente, come una più intensa esperienza del piacere soprattutto nelle prime assunzioni e l’approvazione da parte dei pari nel contesto in cui vive e consuma il soggetto. Ci sono poi diversi e più importanti rinforzi negativi. In primo luogo, come per Khantzian, la riduzione percepita delle emozioni disturbanti e poi, per chi diventa effettivamente dipendente l’evitamento della sindrome d’astinenza[4]. Per questo Duncan ha sostenuto che le dipendenze sono mantenute in particolar modo da rinforzi negativi piuttosto che da quelli positivi. Psicologo, ma anche studioso di salute pubblica, Duncan ha usato il potente modello esplicativo dell’infezione per dar conto di alcuni importanti aspetti individuali e sociali nelle dinamiche delle dipendenze. Secondo questo modello l’agente (la sostanza di scelta) infetta l’ospite (il consumatore) attraverso vettori (ad esempio i pari) in un determinato ambiente che favorisce questa fisiopatogenesi per la presenza di fattori come l’eccesso di stress, la disponibilità della sostanza e contemporanea mancanza di supporto, protezione, prevenzione[5].

L’analogia è suggestiva e possiede una notevole forza euristica. Nel caso di un’infezione, la presenza e la virulenza degli agenti infettivi dipende anche da fattori materiali, sociali ed economici, dai comportamenti degli individui. Ma questo vale anche per l’”infezione” delle dipendenze e i suoi agenti patogeni, le sostanze. Nel caso di un’infezione non tutti colori i quali entrano in contatto con l’agente infettivo svilupperanno la malattia. Questa potrà esordire per la compresenza di molte altre condizioni, non solo dall’incontro tra agente patogeno e organismo, ma anche in funzione del contesto ambientale, sociale, del terreno biologico di costituzione, della personalità, delle esperienze, dei valori che agiscono e interagiscono coi comportamenti abituali, nelle relazioni tra individui. Allo stesso modo non tutti gli individui che provano una sostanza psicoattiva prendono “l’infezione” della dipendenza. Questo dipenderà dalla loro specifica vulnerabilità somatica, dall’eredità genetica, dall’esperienza, dal cumulo di eventi epigenetici che hanno gravato sullo sviluppo dell’individuo lungo tutto l’arco della sua vita. Ma questo ha a che fare col tipo di ambiente con cui quell’individuo si è misurato e si è costruito: ambiente materiale e ambiente sociale.

Non basta una persona e la sostanza a determinare una dipendenza, serve tutta una rete causale di interazioni e retroazioni. Una rete complessa che comprende la storia di specie e la società e l’economia, dentro a cui, conseguentemente, il rapporto in sé tra persona e sostanza occupa uno spazio piuttosto limitato e comunque determinato dal resto.

Riferimenti bibliografici

[1] Awad, A. G., & Voruganti, L. L. N. P. (2015). Revisiting the “self-medication” hypothesis in light of the new data linking low striatal dopamine to comorbid addictive behavior. Therapeutic Advances in Psychopharmacology, 5(3), 172–178. http://doi.org/10.1177/2045125315583820.

[2] Khantzian, E.J., Mack, J.F., & Schatzberg, A.F. (1974). Heroin use as an attempt to cope: Clinical observations. American Journal of Psychiatry, 131, 160-164; Duncan, D.F. (1974a). Reinforcement of drug abuse: Implications for prevention. Clinical Toxicology Bulletin, 4, 69-75; Duncan, D.F. (1974b). Letter: Drug abuse as a coping mechanism. American Journal of Psychiatry, 131, 174.

[3] Khantzian, E.J. (1985). The self-medication hypothesis of addictive disorders: Focus on heroin and cocaine dependence. American Journal of Psychiatry, 142, 1259–1264; Khantzian, E.J., Halliday, K.S., & McAuliffe, W.E. (1990). Addiction and the vulnerable self: Modified dynamic group therapy for drug abusers. New York: Guilford Press; Khantzian, E.J. (1997). The self-medication hypothesis of drug use disorders: A reconsideration and recent applications. Harvard Review of Psychiatry, 4, 231-244.

[4] Duncan, D.F. (1974a). Reinforcement of drug abuse: Implications for prevention. Clinical Toxicology Bulletin, 4, 69-75.

[5] Duncan, D.F. (1975). The acquisition, maintenance and treatment of polydrug dependence: A public health model. Journal of Psychedelic Drugs, 7, 209-213.

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Stefano Canali

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