L’oppio nella letteratura

L’oppio fu compagno sollecito e premuroso nelle pene fisiche e morali, non soltanto dei miseri operai e dei borghesi annoiati, ma anche dell’intera generazione dei Romantici inglesi. George Byron, Percy Shelley, Walter Scott e John Keats facevano ricorso, saltuario o sistematico, al laudano per curare i mal di capo, l’insonnia, l’ansia. Tra i narratori inglesi dello stesso periodo furono Wilkie Collins e  Charles Dickens ad usare il laudano. Il primo iniziò la pratica dell’oppio per curarsi e si abituò poi ad assumere quantità notevoli di laudano, «un bicchiere colmo più volte al giorno», per stimolare il cervello, sino a subirne visibilmente la fascinazione sulla creazione letteraria. Il laudano divenne infatti un elemento importante delle trame narrative di alcuni suoi racconti. Anche Dickens, attento osservatore della misera realtà urbana dell’Inghilterra dove l’oppio rappresentava uno spietato sollievo, usava il laudano come calmante e come pretesto narrativo. Ma sono Samuel Coleridge e Thomas De Quincey i veri eroi della letteratura “drogata” inglese.

Coleridge e il Romanticismo

Coleridge aveva assunto  per la prima volta l’oppio a scopo terapeutico all’età di otto anni. Egli ricorse successivamente all’oppio per curare vari malanni, fino a quando, nel 1796, nel corso di una lunga terapia per una nevralgia facciale, cominciava a rendersi conto dell’effetto stupefacente ed euforizzante del laudano. Nel 1801, all’età di trentuno anni, Coleridge era di fatto un oppiomane. Egli era costretto a prendere il laudano ogni notte per placare la tormentosa irrequietudine che lo attanagliava e che dipendeva certamente dall’eccitazione di rimbalzo propria del sistema nervoso assuefatto ai farmaci sedativi. Coleridge, tuttavia, si rendeva conto lucidamente della schiavitù che da solo si era cagionato. La sua condizione di dipendenza gli procurava un male morale più intenso di quelli che riusciva a vincere con la droga ed acuiva la pena della coscienza di essere in una situazione disperante, dentro un circolo vizioso da cui non si poteva più fuggire: «Immaginatevi un povero disgraziato che per molti anni ha tentato di combattere il dolore trovando sempre un rifugio in quello stesso vizio che produce il dolore! Immaginatevi un’anima all’inferno che tenta di mostrare ad altri una strada verso il cielo, che essa però non può percorrere a causa della sua empietà! In breve, provate a pensare all’essere più miserabile, più disperato, più smarrito; avrete così un’immagine in qualche misura adeguata della condizione nella quale io mi trovo, per quanto una brava persona possa mai immaginarsi qualcosa del genere», scriveva Coleridge a Josiah Wade nel 1814. Due anni più tardi, in una lettera a George Byron egli invece parlava della sua dipendenza dall’oppio come «una particolare follia che lasciando la mente incolume, ed eccitando il senso morale fino a una crudele sensibilità, annulla interamente la volontà».

L’eccezionale creatività di Coleridge, la sua straordinaria fantasia e la sua grandissima capacità di figurare immagini poetiche innovative, hanno dato origine al problema dei possibili rapporti tra la sua attività letteraria e la tossicomania di cui era vittima. Le concezioni e le visioni esposte in alcune delle sue più ispirate produzioni poetiche, come La ballata del vecchio marinaio e Kubla Khan, sembrano infatti richiamare alcuni schemi classici del delirio tossico e delle allucinazioni indotte dall’oppio, soprattutto per quanto concerne la rappresentazione distorta e dilatata del tempo e dello spazio e la percezione di un’essenziale unità organica che legherebbe tutte le cose dell’essere. Gli accostamenti inusitati, le metafore, gli straniati scenari e la metafisica del Coleridge tuttavia erano propri, pur con varia intensità e bellezza, dei luoghi della cultura romantica. Il problema del rapporto tra droga e creatività in Coleridge allora può sciogliersi in quello più vasto della comprensione delle radici della dimensione onirica e fantastica propria dell’epoca romantica. Ma proprio in quest’ultimo problema l’oppio si riaffaccia come elemento con cui dover fare i conti. Le biografie e le opere delle maggiori figure del Romanticismo rivelano come l’oppio sia stato spesso usato, in una sorta di doping dell’immaginario, come espediente creativo, come fonte artificiale di ispirazione, nella frenetica ricerca del visionario, dell’assoluto e del mistero.

Frontespizio dell’edizione del 1899, J-M Dent and co, Aldine- House-London, ‘The confessions of an English opium eater.”

Thomas De Quincey e le Confessioni di un mangiatore d’oppio

Il gusto del bizzarro, la potente vena lirica ed il richiamo alle situazioni del sogno sono presenti anche nella produzione di Thomas De Quincey. Ma nella sua opera più nota, Le confessioni di un mangiatore d’oppio, De Quincey abbandonava il fantastico per fornire un eccezionale, lucido e dettagliato resoconto della sua condizione di tossicomane e degli effetti della droga sulla coscienza. Le confessioni di un mangiatore d’oppio erano anche un grande ed esemplare affresco della pratica dell’oppio nel mondo ottocentesco. Esse raccontavano, per la prima volta nella storia, l’evoluzione dell’ambivalente rapporto di un uomo con la droga, le tappe cadenzate ed inevitabili del decorso dell’esperienza fisica e psicologica dell’oppio, dai «piaceri squisiti» che esso gli dava alle paure e alle «pene che non si possono immaginare» scoperte ben presto dal grande scrittore nel fondo della bottiglietta di laudano.

De Quincey conobbe per la prima volta «la droga divina» nel corso di una cura contro fortissimi dolori reumatici alla faccia e al cranio, che lo affliggevano da giorni. «Che i miei dolori fossero svaniti ai miei occhi era adesso una bazzecola; tale risultato negativo scompariva sommerso nell’immensità degli effetti positivi che mi si aprivan dinanzi, nell’abisoo delle gioie divine che così improvvisamente mi si rivelavano. Ecco alfine la panacea, il pharmakon nepenthes di tutti i dolori umani; ecco il segreto della felicità, intorno al quale i filosofi avevano disputato per tanti secoli! Eccolo scoperto d’un tratto: la gioia si può comperar con due soldi, si può tener nel taschino del panciotto: estasi portatile che si può imbottigliare a litri, pace dell’anima che si può spedire per posta.»[1] Questa scoperta portava immediatamente De Quincey a sostenere un’assoluta positività dell’oppio, a perorare la causa del succo di papavero contro il farmaco della mente più antico e più abusato della storia, il vino: «L’oppio puro è incapace di produrre alcuno stato fisico analogo a quello prodotto dall’alcool; e ciò non solo come intensità, ma anche come natura: ché l’oppio non differisce appieno dall’alcool soltanto per il grado, ma anche per la qualità degli effetti. […] mentre il vino sconvolge le facoltà mentali, l’oppio, al contrario, se è preso come si deve, vi introduce un senso di pace, d’equilibrio, d’armonia squisita. Il vino toglie la padronanza di sé; l’oppio la sostiene e la rafforza; il vino turba il guidizio e dà un che di brillante soprannaturale, un vivo ardore nel disprezzo, nell’ammirazione, nelle simpatie e avversione del bevitore; l’oppio al contrario, rasserena e armonizza ogni facoltà attiva e passiva; […] In breve, per riassumere tutto in una parola, un uomo che è ebbro o sulla via dell’ebbrezza è, e sente d’essere, in una condizione nella quale predomina la parte puramente umana, e troppo spesso brutale, della sua natura; mentre il consumatore d’oppio sente prevalere in sé la parte più divina della sua natura, sente, cioè, che i suoi affetti morali godono d’una serenità senza nubi, e che alta, sopra ogni cosa, sfavilla la gran luce della sua intelligenza, in tutta la propria maestà»[2]

Con l’euforia sconvolgente delle prime esperienza tuttavia passava in gran fretta anche l’entusiasmata ed ingenua considerazione dell’oppio. La potenza ignota e tenebrosa del farmaco aveva rivelato ben presto la sua vera natura. La magia divina delle prime esperienze si era tramutata in un maligno sortilegio. De Quincey ebbe però la forza di intraprendere una cura con dosi di laudano a scalare per liberarsi dalla dipendenza assoluta all’oppio. «Il lettore può considerarmi da allora (il 1813), un consumatore d’oppio regolarmente confermato; tale che il chiedergli se un dato giorno abbia peso l’oppio, sarebbe lo stesso che informarsi se i suoi polmoni han respirato, o se il cuore ha adempiuto le sue funzioni.»[3]

De Quincey non scopriva però soltanto il «cupo cerchio d’ombra» e la tirannia della dipendenza dall’oppio, il rapido progresso dell’assuefazione, le multiformi e periodiche irritazioni nelle più varie regioni dell’organismo. La sua spietata autosservazione lo portava infatti a mettere in luce i limiti stessi dell’azione positiva (in particolare quella stimolante l’immaginazione e la creatività) dell’oppio sulla mente. De Quincey si rendeva conto che le fantasie e le immagini sperimentate dopo l’assunzione di oppio non sortivano ex nihilo dall’azione del farmaco, come un mondo totalmente sconosciuto creato per incanto. L’esperienza drogata era in realtà esperienza distorta della coscienza, viaggio allucinato attraverso il palinsesto della memoria, tra oggetti che sembravano dimenticati. L’oppio quindi non era più la chiave per accedere ai paradisi artificiali, ma diveniva il grimaldello per aprire gli archivi serrati della coscienza personale. Questa scoperta di De Quincey fu importantissima, in quanto chiariva per la prima volta che i meccanismi e i materiali della creazione fantastica messi in moto dall’assunzione di sostanze tossiche dovevano ricondursi per intero alla dimensione dell’esperienza personale. Con ciò la fascinazione della droga perdeva uno dei suoi elementi più attraenti: essa non forniva alcun nuovo potere percettivo, immaginativo e creativo. Ma non solo. L’esperienza dell’alterità, della distorsione farmacologica della coscienza faceva sì che gli stati sognanti fossero accompagnati da «una profonda ansietà, da una funera malinconia, […] assolutamente incomunicabili a parole»[4] I viaggi nella coscienza prodotti dall’azione della droga davano a De Quincey l’impressione «di sprofondare in burroni ed abissi senza sole, in voragini dopo voragini senza fondo, da cui sembrava inane qualsiasi speranza di poter risalire.»[5] Un’impressione che persisteva angosciosa anche al ritorno dagli stati allucinati.

L’estraneità del mondo interiore, delle sue architetture senza fine, scoperto durante questi spettacoli tossici, inoltre, introduceva una terribile frattura tra le capacità intellettive e le possibilità di agire e di realizzare. L’angoscia dell’oppiomane nasceva, secondo De Quincey, dall’impossibilità, non solo di realizzare, ma anche di tentare di materializzare in qualche modo, i pensieri che l’esperienza drogata gli faceva scorgere nella coscienza. In questo senso, De Quincey scopriva come la droga vanifichi la volontà e spezzi, spesso irreparabilmente, l’unità tra le facoltà proprie della persona umana.

Pubblicate per la prima volta nel 1821 sul London Magazine, Le Confessioni di un mangiatore d’oppio suscitarono un’eco profonda nella cultura europea, soprattutto in quella francese. La prima traduzione fu fatta da Alfred De Musset e a questa si ispirò Hector Berlioz per la composizione della Sinfonia fantastica. Honoré de Balzac faceva morire d’oppio uno dei protagonisti del racconto Massimilla Doni, il giovane veneziano Vendramin.

L’oppio nell’opera di Balzac

L’autore della Comédie Humaine aveva assunto un atteggiamento fortemente critico verso l’oppio, che lo portava numerose volte a sottolineare in maniera penetrante gli effetti negativi della droga sull’individuo e sulla società.

«Chiedevano all’oppio di far loro vedere le cupole dorate di Costantinopoli, e di farli rotolare sui divani del serraglio, in mezzo alle donne di Mahmoud: e là temevano, ebbri di piacere, sia il gelo del pugnale, sia il fischio di un laccio di seta; e , pur in preda alle delizie dell’amore, l’oppio consegnava loro il mondo intero. […]

Con tre franchi e venticinque centesimi si traferivano a Cadice o a Siviglia, si arrampicavano su dei muri […] con tre franchi d’oppio ricostruivano persino le creazioni gigantesche dell’antichità greca, asiatica e romana […]

Quelle immense savane, in cui i monumenti si accalcavano come gli uomini nella folla, stavano nei loro limitati cervelli dove gli imperi, le città, le rivoluzioni si svolgevano e si esaurivano inpoche ore! Quale teatro il cervello dell’uomo!

E l’oppio fu fedele alla sua missione di morte! Dopo aver ascoltato le incantevoli voci dell’Italia, aver assimiliato la musica con tutti i pori, aver sperimentato delle profonde delizie, giunsero all’inferno dell’oppio […] penetrarono nella regione delle sofferenze. Furono torturati in ogni muscolo, a ogni capello, nelle orecchie, in fondo ai denti, in tutto ciò che fosse sensibile in loro. Assomigliavano alle persone disilluse per le quali un dolore atroce diviene un piacere! […] perché è questo il tuo punto di arrivo, prodigioso oppio.» Faceva scrivere Balzac nel suo racconto al conte Alex de B.

L’oppio non dava soltanto atroci pene ma era per Balzac un vero strumento di suicidio. Nel Voyage de Paris à Java così si pronunciava: «L’oppio assorbe tutte le energie umane, le congobla in un punto solo, le prende, le sviluppa al quadrato o al cubo, le eleva a non saprei quale potenza, e consente a tutto l’essere una creatività nel vuoto. Fa conferire a ogni senso il maggior piacere possibile, lo stimola, lo stanca, lo consuma; pertanto l’oppio è una morte certa.»

L’oppio infine per Balzac, in quanto portatore d’ebbrezza, rappresentava una grave minaccia per ogni sana dinamica sociale ed andava quindi combattutto a partire dal livello politico.

Charles Baudelaire. L’oppio, il sinistro emblema dei paradisi artificiali

Anche Charles Baudelaire tradusse e commentò Le confessioni di un mangiatore d’oppio e, come De Quincey, anche l’autore de I fiori del male ebbe un rapporto travagliato con la droga. Il suo interesse per le sostanze psicoattive fu tale da indurlo a pubblicare tre saggi su di esse: Sul vino e sull’hashish, L’ideale artificiale – l’hashish e Le estasi e le torture di un mangiatore d’oppio, che saranno successivamente raccolti e pubblicati insieme nel 1869 con il titolo I paradisi artificiali. In questi scritti, come nella serie di conferenze che tenne sul tema da essi affrontato, traspariva, assieme a una non celata suggestione per le droghe, un chiaro intento morale e pedagogico. Egli desiderava rendere pubblica la lucida consapevolezza dei disagi fisici e psicologici prodotti dalle droghe che fu costretto lungamente ad assumere per ragioni terapeutiche. «Voglio dimostrare che quanti cercano il paradiso si costruiscono un inferno, lo preparano, lo scavano con un successo la cui previsione forse li spaventerebbe», scriveva Baudelaire, dimostrare che la caratteristica generale delle droghe è quella di «produrre un indebolimento proporzionale all’eccitazione e una punizione altrettanto crudele quanto vivo è stato il piacere». Come Balzac, inoltre, Baudelaire metteva in evidenza l’isolamento e l’emarginazione sociale cui si va inevitabilmente incontro l’uso dell’oppio, non solo a causa della passività estatica e dell’annullamento della volontà che esso induce nell’individuo, ma anche, e soprattutto, in ragione della disgregazione progressiva degli schemi della coscienza razionale che l’abuso dell’oppio determina. Perché per Baudelaire questa disgregazione significa l’inizio irrimediabile di un viaggio solitario attraverso gli infiniti contenuti della memoria e della coscienza perduta, nel quale si perde per sempre la realtà delle cose.

[1] Le confessioni di un mangiatore d’oppio, Rizzoli, Milano, 1983, p. 235

[2] ibid., pp. 237-9

[3] ibid., p. 261

[4] ibid., p. 304

[5] ibid., pp. 304-5

 

Immagine: Frontiscipe de l’édition de 1899 par J-M Dent and co, Aldine- House-London, de ‘The confessions of an English opium eater. Alainauzas via Wikipedia.

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Stefano Canali

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