Le ragioni del progetto

L’aumento della diffusione del consumo di sostanze psicoattive tra i giovani non è una novità, non è un fenomeno dell’ultimo quadriennio. Esso rappresenta piuttosto un processo ormai datato, che si accentua a dispetto di ogni sforzo nella repressione e nella prevenzione. Allo stesso modo, cosa ormai vecchia, ma non per questo meno singolare, è l’incapacità di modificare, di rinnovare, l’approccio nei confronti di questa inarrestabile crescita, malgrado la palese dimostrazione della loro inefficacia. In questi ultimi due decenni l’espansione epidemica del consumo di sostanze tra i più giovani è avvenuta infatti a dispetto dell’aumento esponenziale degli investimenti e degli sforzi nella repressione e nelle campagne di prevenzione. Da lungo tempo, cioè vengono mantenute e riprodotte strategie di contrasto e prevenzione che – verrebbe da dire secondo logica – hanno concorso a dar luogo a effetti opposti a quelli attesi.
L’incapacità di modulare  e aggiustare gli interventi dimostra eloquentemente che le pratiche di prevenzione e più in generale le politiche sulle sostanze psicoattive sono dettate da istanze ideologiche, da posizioni dogmatiche, piuttosto  che dal razionale e pragmatico principio di agire sulla base dei dati effettivi del fenomeno e in funzione dei risultati ottenuti, prendendo atto della sterilità di certi metodi e correggendoli di riflesso. E sono per primi i giovani a constatare questo vizio d’origine.
L’ideologia e il dogmatismo che fanno capo a queste strategie inquinano gravemente la concettualizzazione e la comunicazione sulle sostanze psicoattive, quelle attorno cui si elaborano e sviluppano i programmi di prevenzione.
La conseguenza più evidente è senz’altro la natura allarmistica della propaganda a fini preventivi. Tuttavia, gli interventi che per prevenire puntano a solo a terrorizzare, esagerando, drammatizzando ed esasperando i rischi che certamente sono legati al consumo delle sostanze psicoattive non sono soltanto inefficaci ma palesemente controproducenti e per varie ragioni.
1) I ragazzi sono consapevoli, spesso anche per esperienza diretta, che i messaggi terroristici non corrispondono alla realtà e quindi veicolano manifestamente informazioni parziali, distorte e manipolate. Questo delegittima chi li diffonde ma anche le parti obiettive dei messaggi, le componenti realistiche delle comunicazioni, e purtroppo, per un riflesso di generalizzazione, instilla nei giovani il discredito, verso tutte le campagne di prevenzione, la diffidenza per ogni tipo di azione educativa e messaggio proveniente dagli adulti.
2) La ricerca psicologica ha dimostrato ormai senza ombra di dubbio che il messaggio allarmistico, centrato sulla paura, produce un effetto contrario a quello atteso. Da un lato esso attiva la negazione come meccanismo di difesa e dall’altro finisce per suscitare attrazione e fascino per il pericolo stesso che intende prevenire. La rappresentazione del consumo delle droghe come terribile, letale, deviante, perversa, finisce per richiamare e sedurre i ragazzi in un momento come quello dell’adolescenza che spesso è caratterizzato dalla ricerca del rischio e dalla sfida al mondo degli adulti, come effetto della spinta verso la definizione dell’identità personale, l’acquisizione dell’autonomia, dell’emancipazione.
D’altro canto se l’uso di talune sostanze è legato al piacere, allora piuttosto che terrorizzare sugli effetti avversi e sui danni prodotti dal consumo, si dovrebbe al contrario insistere sui piaceri, altrettanto intensi ma più durevoli, che si possono ottenere da scelte, comportamenti ed esperienze differenti, da un più sano uso del cervello. Che il limite di un piacere sia un piacere più grande è infatti ampiamente dimostrato dalla ricerca biologica e psicologica. La capacità del piacere di motivare le azioni, di costruire e cambiare abitudini è enormemente più forte di quella propria del timore di conseguenze avverse. Purtroppo questo è un dato costantemente sottovalutato nei messaggi rivolti ai ragazzi.
Altri aspetti dei discorsi, della retorica e delle pratiche di prevenzione del consumo di sostanze d’abuso impressionano per la loro paradossalità, per la loro natura incoerente e contraddittoria. Nella tremenda e nebulosa accezione della parola droga, perno di questa retorica, cui giuridicamente corrisponde il dominio dell’illegalità, si accomunano sostanze niente affatto simili, talora antitetiche, per effetti ricercati, conseguenze avverse, finalità e contesti d’uso, modalità di assunzione come ad esempio canapa e cocaina, oppure ecstasy ed eroina. Allo stesso tempo tuttavia nei discorsi e nelle pratiche finalizzate alle prevenzione vengono costantemente separati, spesso ignorandoli, l’alcol e il tabacco; sostanze al contrario temibili per la loro tossicità, la loro capacità di indurre dipendenza e di provocare disturbi e lesioni irreversibili all’organismo, per la vastità dei danni sociali correlati, per la loro eccezionale diffusione tra i giovani. Anche per questa ragione abbiamo scelto di trattare nel libro l’alcol e il tabacco al pari delle droghe illecite, nella loro storia, nella loro cultura, nei loro effetti e meccanismi d’azione.
La parte di storia e cultura delle droghe del libro dimostra che il rapporto tra uomo e droghe è una costante dell’evoluzione di tutte le civiltà e suggerisce in qualche modo che l’idea di un mondo senza droghe è utopica, rappresenta un disegno irrealizzabile. La storia però rivela che la problematicità e la pericolosità del consumo di sostanze non dipende solo dalle sostanze stesse, ma va cercata, forse soprattutto, nei processi economici, sociali, nelle mode, nell’evoluzione dei valori, nella trasformazione dei significati che l’uomo dà a se stesso, alla sua vita, agli altri, al mondo e alle cose con cui entra in relazione. Per ironia, così, la storia delle sostanze psicoattive indica che la strada migliore per ridurre e contrastare i problemi legati all’uso delle sostanze psicoattive è affatto diversa dall’intervento diretto sul consumo, in particolare la repressione e la punizione. Occorrerebbe agire sulle variabili socio-economiche, sui fattori culturali che sollecitano il consumo delle diverse sostanze. Impresa certamente colossale questa, potenzialmente gravida di condizioni peggiori di quelle che intende migliorare, come tutte le operazioni volte a modificare dall’esterno e dall’alto le dinamiche sociali. Si può tuttavia lavorare più in piccolo e più in concreto con gli individui, attraverso l’educazione. Si può fare prevenzione e ridurre la problematicità del consumo di sostanze d’abuso dando agli individui gli strumenti per comprendere le variabili biologiche, farmacologiche e psicosociali, le loro mutue influenze, nei complessi e rischiosi rapporti tra individui e agenti che alterano gli stati mentali.
Senza moralismi, pregiudizi e reticenze, nel libro parleremo così di cultura e di storia delle sostanze psicoattive; del funzionamento del cervello, di come si costruisce, di come determina le emozioni e delle alterazioni cui va incontro se esposto a queste stesse sostanze; parleremo degli effetti e dei meccanismi d’azione delle sostanze psicoattive, della maniera in cui i fattori psicologici e sociali modulano i loro effetti e le loro conseguenze sull’organismo e sulla mente.
Crediamo che questo approccio – tra storia, cultura, valori e scienza – sia uno dei pochi in grado di intervenire sulla dimensione soggettiva nel rispetto della sua irriducibile individualità. Ed è questa dimensione soggettiva lo spazio in cui si determina il significato che un ragazzo attribuisce alle sostanze psicoattive e al loro uso, e conseguentemente quella da cui dipendono i comportamenti che assumerà nei confronti di esse.
Considerata l’irriducibile diversità delle persone e quindi l’impossibilità di trovare approcci e messaggi adatti per tutti, nella prevenzione forse ciò che conta maggiormente è che i ragazzi arrivino a una comprensione più autonoma, matura e complessa dei significati che attribuiscono alle sostanze psicoattive; soprattutto che diventino capaci di immaginarne le conseguenze potenziali sulla loro vita concreta e per il loro futuro. Ci auguriamo di aver dato con questo lavoro un contributo in questa direzione.

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Stefano Canali

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