Dipendenze, controllo volontario del comportamento e la questione dell’autenticità dell’io

I più recenti sviluppi nella concettualizzazione delle dipendenze hanno portato all’affermazione dell’idea che questa condizione sia legata alla perdita del controllo volontario del comportamento rispetto alla sostanza (ad esempio, Leshner, 1997; Hyman, 2006 e 2007). Già di per sé il concetto di controllo volontario del comportamento è una nozione vaga e piuttosto controversa. Esistono molte diverse interpretazioni sul senso di controllo del comportamento, autocontrollo, volontarietà di un’azione. E l’inizio del dibattito su questo problema risale praticamente alla nascita del filosofia morale. Le idee di autocontrollo e volontarietà, che implicano la capacità di autodeterminazione, sono stata messe in discussione da diverse teorie deterministiche, negando l’esistenza stessa di un margine minimo di libertà dell’azione e del volere.

Ma mettiamo tra parentesi queste difficoltà e concediamo la possibilità di usare l’idea di controllo volontario del comportamento per comprendere cosa siano le dipendenze. In generale l’idea di perdita di controllo allude a quelle condizioni in cui un soggetto sperimenta una discrepanza tra il suo effettivo comportamento e l’immagine che ha di sé, i valori che pensa di perseguire. Tuttavia, giudicare certe decisioni coerenti o discordanti rispetto all’immagine di sé o ai valori scelti potrebbe essere in realtà una forma di autoinganno piuttosto che una perdita del controllo del comportamento. È purtroppo molto comune, ad esempio, il caso di persone convinte di essere leali, oneste e sensibili le quali invece agiscono in maniera falsa, cinica, disonesta.

René Magritte. 1898-1967. Bruxelles. La reproduction interdite. 1937 https://www.flickr.com/photos/mazanto/18760757061/in/photostream/
René Magritte. 1898-1967. Bruxelles. La reproduction interdite. 1937

Il recente filone degli studi sul cosiddetto nuovo inconscio, la dimensione dei comportamenti abituali codificati e riprodotti dalle memorie procedurali, ha dimostrato conclusivamente che l’immagine che abbiamo di noi stessi è molto distante da ciò che siamo e facciamo veramente, abitualmente. Non solo. Il dato più preoccupante è che la dimensione di questo nucleo profondo della nostra personalità è impervio alla comprensione consapevole. Siamo condannati a restare stranieri a noi stessi e paradossalmente, molte ricerche dimostrano che gli altri che ci sono vicini sanno prevedere meglio di noi cosa faremo e come reagiremo di fronte a certi stimoli e certe situazioni.

Per tutto ciò, nel controllo volontario del comportamento non può esser posto come scontato o ovvio il primato delle rappresentazioni cognitive. Culturalmente mediata, la rappresentazione che abbiamo di noi stessi potrebbe essere inautentica, questa sì, discrepante rispetto alla nostra costituzione più intima, al nostro temperamento. Questa discordanza potrebbe risultare da un conflitto tra aspirazioni ideali ed educazione con le nostre effettive esperienze, abitudini, automaticità comportamentali: un contrasto patogeno che classicamente veniva indicato col termine di nevrosi. Non è raro inoltre che, rispetto a quelle più cognitive, le valutazioni a prevalenza affettiva e le relative emozioni percepite, sebbene talora inarticolate, giudichino meglio o più fedelmente la natura del rapporto tra un soggetto e una situazione data: una relazione, una condizione ambientale o esistenziale e siano così in grado di dare impulso e di sostenere i comportamenti più funzionali.

Resta tuttavia un fatto che la dimensione cognitiva ha uno straordinario valore nelle forme realmente possibili di controllo del comportamento umano, se questo è inteso come capacità di esercitare una forma di analisi e integrazione degli impulsi e delle dinamiche emotive sulla base delle conoscenze, della memoria e del calcolo razionale che riusciamo a elaborare prima di decidere di dare avvio a un comportamento e dire sì o no a un impulso ad agire, come potrebbe essere quello di consumare una sostanza o ripetere compulsivamente un certo comportamento, lo schema di una dipendenza.

La mediazione cognitiva e la rappresentazione di sé possono fornire quei riferimenti in grado di dar coerenza al flusso costante di impressioni, desideri, relazioni e azioni: al mutevole e altrimenti incongruo campo di forze dentro al quale sentiamo muovere il nostro io. La dimensione cognitiva assicura allo stesso tempo una prospettiva temporale e la possibilità di declinare la nostra vita al futuro o ragionare sul nostro passato, rendendo così in linea di principio possibile perseguire un ideale di vita, di possedere un nostro disegno esistenziale che annodi il passato al futuro e dia coerenza e senso alla storia passata e a ciò che ci aspettiamo di vivere. Non è un caso, a tal proposito, che il piano cognitivo del controllo volontario sia soprattutto mediato da un sistema psicobiologico centrato sulla corteccia prefrontale e capace di operare in modo computazionale e attraverso rappresentazioni e sistemi simbolici. Ciò permette di realizzare una narrazione, costruire e ricostruire incessantemente il racconto dell’io dalla corrente di sensazioni costantemente afferenti dall’organismo, dal mondo esterno, dalle dinamiche affettive.

Molte teorie psicologiche e filosofiche hanno sostenuto che gli esseri umani concepiscono se stessi e gli altri in termini narrativi (ad esempio, Heidegger, 1927; Sartre, 1943; Dennett, 1992; Frankfurt, 1977; Glover, 1988; Schechtman,1996.)

La narrazione dell’io, garantisce unità e coerenza. La messa in atto di queste ultime qualità dipende dalla capacità di riflettere sugli impulsi, di averne una consapevole rappresentazione; dipendono dalla capacità di organizzare e perseguire degli obiettivi pratici ovvero anche, e più in generale, di formulare e seguire dei disegni esistenziali. È tuttavia evidente che quanto più una narrazione dell’io è strutturata, consapevole, precisata e coerente, tanto più un individuo saprà mediare gli impulsi, le tensioni emotive, gli appetiti, tra cui anche il desiderio delle sostanze psicoattive. Ciò anche perché ogni grado più profondo e ampio di consapevolezza si accompagna a una maggiore ricchezza e forza dei circuiti prefrontali che innervano, imbrigliano e modulano il sistema di ricompensa cerebrale: l’organo bersaglio dell’azione delle sostanze psicoattive e la matrice funzionale che sembra dare avvio alla patogenesi delle dipendenze.

Ciò suggerisce che il lavoro sulla narrazione dell’io, sulla costruzione e sul chiarimento dei valori, degli ideali e degli obiettivi che intende perseguire è uno strumento efficace per migliorare il controllo volontario del comportamento, dunque anche per la cura e la prevenzione dell’abuso di sostanze e delle dipendenze e più in generale per tutti i disordini del comportamento in cui è in gioco la tensione tra elementi affettivi, desideri e ragione.

Stefano Canali

Riferimenti bibliografici

Dennett D (1992), The Self as a Center of Narrative Gravity in F. Kessel, P. Cole and D. Johnson (eds), Self and Consciousness: Multiple Perspectives, Erlbaum, Hillsdale, NJ.

Frankfurt HG (1977). Identification and Externality. In Amelie Rorty (ed.), The Identities of Persons. University of California Press, Berkeley, pp.239-252.

Hyman SE. (2005) Addiction: a disease of learning and memory. Am J Psychiatry. 162(8):1414-22.

Hyman SE. (2007) The neurobiology of addiction: implications for voluntary control of behavior. Am J Bioeth. 7(1):8-11.

Glover J (1988), The Philosophy and Psychology of Personal Identity London, Penguin.

Heidegger M (1927) Sein und Zeit “, Max Niemeyer Verlag, Tübingen.

Leshner AI (1997) Addiction is a brain disease, and it matters. Science;278 (5335):45-7.

Sartre JP (1943) L’Être et le néant: Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris.

Schechtman M (1996) The Constitution of Selves. New York: Cornell University Press.

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