La sostanza come causa della dipendenza. Benjamin Rush, il termometro morale e fisico dei liquori e dei loro effetti e la nascita del farmacocentrismo

Nel 1784, Benjamin Rush (1746-1813), medico e docente all’Università di Philadelphia, leader del movimento della temperanza ma con investimenti nei vigneti, firmatario della Dichiarazione d’indipendenza americana, pubblicava An enquiry into the effects of spirituous liquors upon the human body: and their influence upon the happiness of society. Questo pamphlet enuncia la prima formulazione compiuta della dipendenza come malattia. Una esposizione in cui si trovano riassunti ed esposti quegli elementi della visione medica della dipendenza, talora controversi, che sono ancora oggi al centro dei criteri con cui viene diagnosticata, in particolare la perdita del controllo volontario sul consumo sulla sostanza.

Scriveva Rush: “l’uso di liquori forti è all’inizio una scelta libera. Poi dall’abitudine prende forma una necessità”. Rush designa questa condizione come una malattia della volontà, caratterizzata dall’”incapacità di astenersi”, dalla “perdita del controllo”.

 

Verso l’affermazione del modello medico della dipendenza

Il contributo di Rush all’affermazione del modello medico della dipendenza è riassumibile in cinque punti:

  • L’individuazione dell’agente causale, in questo caso l’alcol;
  • La descrizione dell’alcolismo come la perdita del controllo sul comportamento del bere, cioè come tipo di comportamento compulsivo;
  • L’ereditarietà dell’alcolismo, a dimostrazione della presenza di una fondamentale componente biologica;
  • La definizione dell’alcolismo come malattia, come condizione determinata da trasformazioni patologiche a carico dell’organismo;
  • L’indicazione che, come le altre malattie, anche “l’uso intemperante degli spiriti distillati”, l’alcolismo, ha delle sue specifiche cause predisponenti;
  • L’indicazione di strategie di intervento centrate sull’astinenza e metodi di tipo fisico e comportamentale mediati dalla terapeutica psichiatrica del tempo, ad esempio l’uso di emetici in associazione all’alcol per indurre nausea e vomito e quindi avversione condizionata verso gli alcolici.

 

Un termometro morale e fisico delle bevande alcoliche e dei loro effetti

Benjamin Rush, Termometro morale e fisico: una scala del progresso della Temperanza e dell’intemperanza – Liquori con effetti secondo il loro ordine, 1790 (clicca sull’immagine per visualizzare un ingrandimento)

Il pamphlet aveva varie edizioni in pochi anni e nel 1790 veniva arricchito con una illustrazione che è diventata uno dei documenti più famosi della storia della medicina e delle scienze delle dipendenze: “Un termometro morale e fisico: una scala del progresso della Temperanza e dell’intemperanza – Liquori con effetti secondo il loro ordine”.

Questo “termometro” divideva le bevande in due categorie, quelle che favorivano la “Temperanza” e quelle che alimentavano l’Intemperanza, e mostrava i presunti effetti sul bere di ciascuna. Il termometro di Rush associava alla temperanza in primo luogo l’acqua capace di portare “salute e ricchezza”. Poi più in basso acqua e ​​latte, acqua e aceto e acqua e melassa, indicate da bere mescolati e birra leggera. Come l’acqua da sola, queste bevande, assicuravano “serenità della mente, reputazione, lunga vita e felicità”. Ancora più in basso, ma comunque dentro ai gradi della temperanza, il sidro, il vino, la birra scura porter, e la birra forte. Queste bevande alcoliche secondo Rush potevano garantire “Allegria, forza e nutrimento” ma solo se assunte in piccole quantità e ai pasti.”

Il punch rappresentava il punto zero, la bevanda che faceva da spartiacque tra temperanza e Intemperanza. Partendo dal punch forte, passando per il grog, gli amari, il rum e altri distillati, Rush compilava una serie di corrispondenze in ordine di crescente gravità tra liquori, tratti comportamentali, i vizi, malattie e conseguenti punizioni.

Il punch, alcolico meno pericoloso, era comunque ritratto come portatore di ozio e causa della gotta. Il grog veniva associato alla tendenza al litigio, al vomito e ai tremori delle mani al mattino e come conseguenze negativi e punizioni ai debiti e agli occhi neri. Gli amari conducevano ai vizi dell’oscenità, della frode e dell’anarchia; causavano ittero, dolori agli arti mani e piedi infiammati e avevano come conseguenza gli ospizi di povertà o addirittura il carcere. Via via passando attraverso liquori a crescente gradazione, sino ad arrivare al whisky alla mattina, il “Morning dram”[1] e al rum col pepe, che potevano indurre epilessia, depressione, paralisi, morte; portare a omicidio, suicidio, e quindi terminare con la detenzione nel famigerato penitenziario di Castle Island o addirittura con l’impiccagione.

Anche se oggi il linguaggio e le associazioni prefigurate nel pamphlet di Rush rivelano in modo evidente tutto il loro carattere controverso e moralistico, il “Termometro morale e fisico” è stato uno degli oggetti grafici più informativi e risonanti della storia della comunicazione sulle dipendenze. Era al tempo ed è stato per oltre un secolo la perspicua illustrazione di modo comune di vedere il consumo di alcol e soprattutto l’ubriachezza come la causa prima di una articolata e parallela catena di peccati, malattie e crimini. E l’idea che la gran parte dei comportamenti devianti e patologici dovessero essere ricondotti all’alcol, fiorì ancora nel ventesimo secolo e fu la base ideologica, anche supportata dalle teorie medico-scientifiche, su cui poggiarono le politiche di temperanza e proibizionismo che si imposero nell’Ottocento.

 

Nascita di un approccio paradossale. Il farmacocentrismo: la sostanza come causa delle dipendenza

Al di là di queste notazioni storiche, pur importanti, sembra tuttavia più interessante rilevare il significato e le conseguenze scientifiche e culturali delle teorie condensate da Rush nell’illustrazione del termometro morale e fisico dei liquori. La distinzione più rilevante e con la maggiori ricadute concettuali anche per le scienze delle dipendenze attuali è stata quella tra alcolici della temperanza, come il sidro, il vino e la birra e alcolici dell’intemperanza: il grog, gli amari, il rum, il whisky, insomma i distillati in genere. I primi venivano descritti addirittura come portatori di salute fisica e mentale di buon umore, felicità se consumati durante i pasti o in dosi moderate. Nessuna possibilità di regolazione e controllo dell’uso veniva invece assegnata da Rush al consumo dei liquori distillati. Si poteva cioè gustare vino, sidro e birra moderatamente, traendone anche benefici ma lo stesso non era vero per i liquori.

Sebbene la scala del termometro morale e fisico si muovesse dalla temperanza all’intemperanza, cioè da modalità comportamentali di rapporto con le cose, gli impulsi o gli appetiti, in questo caso il bere, i collegamenti grafici ben congegnati ed evidenti dell’illustrazione alludevano chiaramente a un nesso causale diretto tra bevande alcoliche, liquori, distillati e vizi, peccati, malattie, punizioni. Vale a dire che Rush, e per la prima volta nella storia del pensiero sul bere, rimandava l’eccesso, la sregolatezza, l’ubriachezza e l’alcolismo alla natura stessa della sostanza, non al consumatore, alle sue scelte, alle sue abitudini o all’ambiente sociale. Nasceva così una prospettiva farmacocentrica, ancora oggi sostanzialmente dominante, soprattutto a livello pubblico. Un punto di vista che considera la sostanza psicoattiva come causa, in talune teorizzazioni anche determinante esclusivo, delle trasformazioni organiche, nervose, che portano i consumatori abituali a perdere progressivamente il controllo sull’uso e a sviluppare una malattia, indipendentemente dagli altri fattori psicologici, ambientali, economici. Una prospettiva peraltro contraddittoria: portatrice di una visione deterministica a sottolineare il potere dell’alcol di compromettere patologicamente i meccanismi dell’organismo alla base della volontà e quindi di porre fuori gioco la responsabilità personale; ma allo stesso tempo comunque intrisa di moralismo. Ed è la prospettiva che ha reso possibile l’affermazione di un’idea diffusa di dipendenza in cui permane l’illogica, ma ancora oggi purtroppo attuale, compresenza di categorie fisiopatologiche e stigmatizzazione. Da alcuni decenni ormai, non solo numerosi studi etnografici e psicologici sui consumatori di droghe, ma anche classici esperimenti di farmacologia comportamentale, come quelle sugli animali aggiogati, dimostrano conclusivamente che è il comportamento, l’associazione tra azioni, ambiente, emozioni e sostanze a determinare l’avvio della dipendenza, non la sostanza in sé. Si veda l’articolo relativo per i dettagli su questo fondamentale argomento.

In modo apparentemente ironico, anche le neuroscienze oggi dimostrano che è venuto il momento di superare definitivamente la tradizione concettuale avviata da Rush, del modello della dipendenza come malattia del cervello causata dall’azione di una sostanza. La sostanza è solo uno dei tanti ingredienti della dipendenza la quale, come i neuroni con cui interagisce, manifesta i suoi effetti sempre attraverso la mediazione della persona, delle sue relazioni, delle sue abitudini, dell’ambiente sociale e materiale in cui viene cercata e consumata.

Stefano Canali

[1] Dram è un termine Gaelico che indica la quantità tipica di whisky che viene servita per singolo bicchiere e che poi in inglese è divenuto per antonomasia, il drink, il bicchiere di scotch.

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