La società conta più del cervello e delle droghe? La dipendenza come adattamento alla dislocazione

I comportamenti ricorrenti nelle dipendenze, i quali manifestano chiaramente forme più o meno elaborate di intenzionalità, non sembrano completamente accordarsi alla visione biomedica di questa condizione come malattia che abolisce il controllo volontario sull’uso di una droga, di una sostanza psicoattiva. Allo stesso modo tuttavia, sembra impossibile sostenere una concezione della dipendenza come condizione interamente morale, come vizio, vale a dire come schema di comportamento in cui sono mantenute totalmente integre la responsabilità, l’autonomia e il controllo sull’uso delle sostanze. I soggetti che dipendono da una sostanza infatti manifestano spesso chiare intenzioni di smettere e mettono in atto concrete azioni per arrivare alla guarigione ma finiscono per ricadere a dispetto delle buone intenzioni e delle strategie messe in campo.

La concezione biomedica della dipendenza si concentra sulla sostanza, considerata capace di indurre trasformazioni croniche nel sistema nervoso centrale tali da sequestrare i centri cerebrali che mediano i processi emotivi, motivazionali e dell’autocontrollo. La dipendenza in questo senso è considerata un processo patologico che si incarna in una singola persona, un fatto patologico individuale che occorre all’interno di un insieme di processi sociali e materiali considerati funzionali, dentro a un sistema di relazioni giudicati sani e tra individui ritenuti normali.

Sembra evidente che si dovrebbe guardare a queste cose in altro modo.

 

La teoria della dislocazione

Tra le prospettive alternative vale la pena di parlare di quella avanzata da Bruce Alexander nel volume The Globalization of Addiction: A Study in Poverty of the Spirit pubblicato nel 2010: la teoria della dislocazione. Questa idea pone l’accento sulle cause psicosociali, soprattutto sulle condizioni materiali e i modi con cui attualmente si svolge e si riproduce l’esistenza umana e vede la dipendenza come un modo di adattarsi ad alcuni aspetti disfunzionali caratteristici della modernità, in particolare la frammentazione sociale e la dislocazione individuale.

Paul Klee, Murale dal tempio della nostalgia, 1922

Seguendo Karl Polanyi[i], Alexander usa il termine dislocazione per descrivere l’effetto della frammentazione sociale sugli individui. La dislocazione si riferisce alla compromissione della stabilità e della profondità delle connessioni tra individui e le loro famiglie, amici, luoghi di origine, società, tradizioni, abitudini, religioni. Da un lato la dislocazione ha favorito l’affermazione dell’individuo, delle sue libertà, delle possibilità di realizzazione come singolo, della sua creatività, che sono probabilmente i tratti che distinguono l’uomo contemporaneo rispetto al suo passato. Questa straordinaria moltiplicazione delle possibilità esistenziali si è ottenuta a caro prezzo. La dislocazione mina infatti l’integrazione psicosociale e di conseguenza le normali basi dell’identità umana, le quali, come dimostrano anche le neuroscienze cognitive e sociali si basano soprattutto sui rapporti affettivi, sui legami sociali, sull’appartenenza a una comunità e sulla condivisione di prassi e valori. La frammentazione psicosociale ostacola la costruzione di sensi e significati, l’individuazione di finalità esistenziali chiare; sottrae i riferimenti che danno valore e spessore alle esperienze e alle memorie. In questo modo diventa più complesso sperimentare il senso e la forza emotiva dell’esistenza, che si fa per questo piatta, vuota e insoddisfacente[ii].

L’integrazione psicosociale si realizza nella profonda interdipendenza tra individuo e società e normalmente cresce e si sviluppa durante la vita di ogni persona. L’integrazione psicosociale riconcilia il bisogno delle persone per l’appartenenza sociale con i loro bisogni ugualmente vitali per l’autonomia e la realizzazione individuale. L’integrazione psicosociale è allo stesso tempo una esperienza interiore di identità, di significato e un insieme di relazioni sociali esterne. Sviluppare una profonda interpenetrazione tra se stessi e la società consente a ciascuna persona di soddisfare contemporaneamente sia i bisogni individualistici sia i bisogni della comunità: essere liberi e ancora appartenere a un insieme di persone. La dislocazione è la permanente mancanza di integrazione psicosociale. Possono soffrirla le persone svantaggiate economicamente, quelle che vivono ai margini della società, ma anche le persone costrette per lavoro a spezzare i legami di affetto e i luoghi di origine; senza radici, ovvero anche le persone schiacciate dai ritmi lavorativi, senza più spazio per le relazioni; i figli che crescono con entrambi i genitori al lavoro per larga parte della giornata, lontano da ogni altro parente, senza relazioni significative di vicinato.

La dislocazione è dolorosa per l’individuo e distruttiva per la società: trauma individuale e disgregazione sociale si alimentano reciprocamente, in modo circolare.

La povertà materiale spesso accompagna la dislocazione, ma non sono assolutamente la stessa cosa. Sebbene la povertà materiale possa rendere disfunzionali individui e famiglie isolati, può essere efficacemente sopportata da persone che la affrontano insieme e dentro a una comunità integrata. D’altra parte, le persone che hanno perso la loro integrazione psicosociale tendono a smarrirsi, ammalarsi, sviluppare disturbi del comportamento, o sentirsi degradate anche se non sono materialmente povere. Hanno perso i loro riferimenti, il tessuto da cui traevano la loro identità e i loro significati e fuori da un’appartenenza condivisa queste persone possono perdere, assieme all’identità il loro senso di dignità, provare un senso di negazione e la vergogna che a questo sentimento spesso si accompagna. Né il cibo, né un’abitazione, né l’agiatezza possono garantire il benessere a chi è costretto a vivere nella frammentazione e nella dislocazione. Per queste ragioni, in contrasto con la povertà materiale, Bruce Alexander definisce la dislocazione una “povertà dello spirito”.

 

La dislocazione, la frammentazione dell’Io e i disturbi dell’autocontrollo

D’altra parte la frammentazione sociale, l’isolamento, la dislocazione tendono a riflettersi sulla frammentazione dell’Io, una condizione spesso associata ai disturbi del comportamento, soprattutto a quelli del controllo del comportamento, come sono le dipendenze. L’autocontrollo è infatti anche un’espressione della coerenza e della coesione dell’Io, delle sue dinamiche, delle sue narrazioni, degli obiettivi e dei valori che si rappresenta e codifica, delle motivazioni. Un Io frammentato, privo di una trama coerente di riferimenti, valori, significati, senza una storia coerente dei suoi legami, del suo passato e del suo possibile futuro è più facilmente agito dalle sensazioni e dalle forze istantanee che si affacciano alla coscienza: emozioni, impulsi, appetiti; tende per questo a reagire in modo riflesso agli stimoli esterni o a cercare la gratificazione immediata anche quando rischiosa, è dunque maggiormente incline a sviluppare un problema con le sostanze psicoattive.

 

Viene prima la società del cervello: La dipendenza come adattamento alla dislocazione

Ma la dipendenza, secondo Alexander, non è una condizione patologica. L’uso di sostanze, anche quello problematico, vanno considerati come un tentativo di adattarsi alla dislocazione profonda e protratta, a condizioni psicosociali altrimenti intollerabili. A questo proposito si veda anche il nostro post sull’uso delle sostanze come automedicazione. Questa tesi peraltro è coerente al racconto della loro condizione che tipicamente fanno i soggetti con dipendenza[iii].

L’uso problematico di sostanze sarebbe ormai endemico perché l’economia di mercato, la globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia, la società dei consumi[iv] favoriscono la rottura generale dell’integrazione psico-sociale e quindi la diffusione universale della dislocazione.

Alexander sostiene che il primato dato alla prospettiva medica, alla focalizzazione sull’individuo, sul suo corpo, sul suo cervello, hanno la colpa di aver ignorato gli effetti della dislocazione sociale, le cause e le dinamiche sociale ed economiche che la stanno determinando. Per questo le strategie di intervento basate sulla concezione biomedica falliscono nella clinica e nella prevenzione. Le cause fondamentali secondo Alexander vanno rintracciate e combattute nei processi socioeconomici che producono frammentazione e dislocazione.

Ad esempio, la Cina è oggi uno dei paesi col più alto tasso di crescita nell’uso di sostanze e nel numero di nuovi dipendenti. E non a caso, secondo Alexander, questo stato negli ultimi anni, con la modernizzazione e il passaggio all’economia di mercato è quello che sta vivendo uno dei più grandi processi di dislocazione di massa della storia, principalmente da un sistema agricolo alla produzione e al consumo in città grandi e congestionate. È interessante notare che in Cina si può essere condannati a morte per la vendita o la produzione di droghe, ma questo non ha avuto alcun impatto significativo sulla crescita dei tassi di consumo e della dipendenza. Evidentemente il dolore che si vive nell’anomia, nell’alienazione e nell’isolamento e che si cerca di medicare con le droghe è così forte per taluni induce una paura maggiore della pena capitale.

Nella ricerca sull’esperienza della dipendenza in prima persona che sto conducendo coi miei collaboratori abbiamo trovato numerose testimonianze analoghe. “Senza le droghe”, come ci raccontava uno dei pazienti intervistati, “la condanna alla ‘pena di vita‘ era peggio della morte”.

Stefano Canali

Riferimenti bibliografici

[i] Polanyi, K. (1944). The great transformation: The political and economic origins of our times. Boston, MA: Beacon

[ii] Tolman, C.W. (2013). Sumus ergo sum: The psychology of self and how Descartes got it wrong. In W.E. Smythe (Ed.), Toward a psychology of persons. New York, NY: Psychology Press (pp. 3-24)

[iii] Si veda ad esempio Maté G. (2007), In the realm of hungry ghosts. Knopf Toronto.

[iv] Klein, N. (2007) The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism. Knopf, Toronto.

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