La dipendenza come malattia e l’idea della malattia come disfunzione

la dipendenza è una malattia che può essere tratta
la dipendenza è una malattia che può essere trattata. National Institute on Drug Abuse (NIDA)

I modelli di spiegazione con cui si tenta di dar conto dei processi eziologici e delle traiettorie fisiopatologiche alla base della dipendenza sono assai numerosi. Ad oggi però nessuna ipotesi sembra esente da aspetti controversi e il consenso della comunità scientifica sulla reale natura delle dinamiche causali è ancora molto lontano. A dispetto di questo, il concetto biomedico della dipendenza come malattia del cervello, come disfunzione biologica, sembra aver definitivamente scalzato le spiegazioni sociali, psicologiche e morali ed è diventato il riferimento prevalente nel dibattito teorico e nella ricerca sulle cause e sulle strategie di intervento sull’abuso di sostanze psicoattive. Secondo questa idea l’uso prolungato di una sostanza determina precise trasformazioni nelle strutture e nelle funzioni cerebrali le quali trasformano l’uso volontario nella ricerca compulsiva della sostanza (Leshner, 1997). Il segno cardinale di questa malattia sarebbe dunque la perdita del controllo rispetto alla sostanza o al comportamento che è oggetto della dipendenza, come sarebbe nel caso del gioco d’azzardo patologico.

Questo modello biomedico della dipendenza come malattia e di malattia come disfunzione biologica non è universalmente ritenuto in grado di rappresentare adeguatamente la natura e le peculiarità della condizione. Descrizioni di tipo psicologico e sociologico sono in grado di cogliere elementi della fenomenologia di questi comportamenti che ancora sfuggono alla prospettiva biomedica. Inoltre, dato che in ogni caso qualunque tipo di intervento, sia esso farmacologico, psicoterapico o comportamentale, finisce per avere come bersaglio gli indirizzi chimici e microanatomici del cervello e modificare così le sue funzioni e i suoi circuiti, le strategie di cura, recupero e prevenzione di tipo psicosociale hanno non di rado un grado di efficacia comparabile, se non quando superiore, a quello degli approcci medicalizzati.

Il dibattito su quale sia il modello migliore ci appare francamente poco interessante. È evidente che la complessità della dipendenza, la diversità e la circolarità dei livelli di processi e fenomeni che coinvolge – da quelli molecolari a quello sociali, impongono l’uso di approcci concettuali e operativi articolati, multidimensionali, sempre integrati. In questo caso proveremo a riflettere brevemente su un aspetto fondamentale della nozione di dipendenza come patologia del controllo volontario del comportamento: l’idea di malattia come disfunzione. Ciò perché, come mi auguro risulterà chiaro, gli aspetti controversi della nozione di dipendenza come malattia, vanno oltre quelli denunciati dalla prospettiva psicosociologica. Esiste un tratto problematico più fondamentale, radicato sul carattere dubbio della stessa concezione naturalizzata, oggettiva, della malattia come alterazione di una qualche funzione biologica normale in un individuo.

Oggi così ovvio, il concetto biomedico di malattia è in realtà un prodotto storico piuttosto recente, una nozione che emerge nella seconda metà dell’Ottocento con la definizione della medicina sperimentale. L’ideale della medicina sperimentale è informato dal modello ezio-fisiopatologico in cui la malattia è vista come deviazione da una norma funzionale, fisiologica, e il cui obiettivo è l’accertamento della cause immediate o prossime del fatto patologico in un individuo al fine di realizzare una terapia causale e razionale.

Adriaen Brouwer, Inn con i contadini ubriachi, 1625
Adriaen Brouwer, Inn con i contadini ubriachi, 1625

In questo senso, il modello ezio-fisiopatologico di malattia riassume la dottrina causale, l’ideale terapeutico forte della medicina scientifica, i tratti più vistosi e che hanno finito per caratterizzare prioritariamente la medicina tout court, rispetto alla prospettiva e ai modi di operare degli approcci epidemiologici, dell’igiene e della sanità.

Particolarmente attraente per le teorizzazioni scientifiche dell’abuso di sostanze psicoattive è il fatto che il concetto biomedico di dipendenza come malattia descrive l’identità di questa condizione dal modo in cui è fatto e funziona l’organismo. Esso sembra permettere così di superare definitivamente la dimensione normativa, morale, che ha da sempre inquinato la comprensione dell’abuso di sostanze e l’intervento sulle dipendenze. Allo stesso tempo il modello biomedico di dipendenza come disfunzione del cervello sembra escludere i fattori soggettivi e ogni altri tipo di variabile psicologica e storico-sociale impervia alla comprensione causale, oggettiva e quantitativa tipica del metodo delle scienze naturali. Tuttavia, una descrizione della malattia come disfunzione può essere realmente oggettiva e indipendente da fattori normativi e psicosociali soltanto se il concetto di funzione normale è esso stesso oggettivo e privo di riferimenti a valori o altri elementi non misurabili in modo obiettivo.

Ma come si definisce una funzione/disfunzione psicologica mediata dal cervello? In primo luogo nell’individuazione di una particolare finalità, di un obiettivo che può organizzare e rendere coerente/funzionale (sano), incoerente/disfunzionale (patologico) un determinato comportamento in circostanze date. Ma le finalità di un comportamento dipendono dalle funzioni d’insieme dell’organismo, dalle sue condizioni fisiologiche (nel caso delle motivazioni biologiche), dalle interazioni con il particolare ambiente in cui si trova, dai significati che l’individuo gli attribuisce rispetto alla sua situazione e alle sue aspettative, ma ciò è a sua volta espressione delle relazioni che l’individuo ha con gli altri, della cultura e dai valori. E quindi tutte le funzioni/disfunzioni psicologiche sono determinate da relazioni complesse che investono piani diversi della realtà fisica e psicosociale dell’uomo: dai processi fisiologici alle motivazioni e alle esperienze di un individuo, sino ai concetti, alle metafore, ai simboli propri di un determinato periodo storico e usati per parlare, giudicare e descrivere il comportamento.

Il cervello quindi non soddisfa le condizioni concettuali per l’attribuzione di funzioni/disfunzioni del comportamento: occorre comunque e sempre chiamare in causa l’organismo intero, la persona e la società e i suoi valori.

Dietro il concetto biomedico di malattia e le sue pretese di oggettività si cela un altro aspetto problematico poco discusso e di nuovo relativo alla dimensione dei valori. Se la malattia è una disfunzione e se una disfunzione è una deviazione da una norma funzionale che comunque è sempre tale in rapporto a un ambiente, allora la malattia finisce per indicare l’elemento della relazione individuo-corpo/ambiente che deve essere cambiato. Se la relazione individuo-corpo/ambiente è valutata inadeguata e porta alla definizione di una particolare malattia, ciò significa che è il corpo a essere giudicato malato e che l’ambiente è ritenuto accettabile e funzionale. Ma la salute è quella forma desiderabile di relazione funzionale tra individuo e ambiente. Quando questa relazione è disfunzionale in genere anche l’ambiente che la determina può essere cambiato, sebbene ciò possa risultare più complesso che intervenire su un singolo individuo, sul corso di una singola persona. Ma ciò dimostra che definire malato il corpo piuttosto che l’ambiente è solo una questione di punti di vista, di interessi, di supposta praticità.

È evidente come questo ragionamento si adatti all’analisi dell’abuso di sostanze e delle dipendenze. Una eccessiva focalizzazione sull’individuo, sul suo cervello e sulle sostanze tossiche può portare a trascurare la “tossicità” dell’ambiente, in termini di presenza e disponibilità delle sostanze sul mercato, ma soprattutto dal punto di vista del carattere patogeno di certe dinamiche sociali, di talune condizioni di vita materiali, ma anche la tossicità psicologica di determinati valori e simboli della contemporaneità, di certe rappresentazioni, forme e stili di consumo di oggetti, merci e relazioni diffusi a livello sociale.

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Stefano Canali

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