Intenzionalità, volontà e libertà nelle dipendenze

Il fenomeno della dipendenza presenta moltissimi aspetti spinosi, di difficile definizione. Alcuni di questi aspetti sono di natura prettamente empirica, e riguardano prevalentemente i correlati biologici della dipendenza o le dinamiche e i fattori psicosociali che concorrono a determinare l’uso problematico delle sostanze psicoattive. Altri sono invece di natura più strettamente concettuale, riguardano cioè il modo in cui definiamo e spieghiamo i tratti e i processi comportamentali tipicamente associati alle dipendenze. Le questioni concettuali sono tuttavia altrettanto importanti di quelle empiriche, e per certi versi prioritarie rispetto allo studio fattuale. Ciò che vediamo, come lo vediamo e come lo studiamo, comprese le dipendenze, discende dalle descrizioni e dalle definizioni teoriche che usiamo per guardare e comprendere il relativo ambito di fatti. Si tratta di descrizioni e definizioni che mutano costantemente in virtù dell’azione di controllo dell’adeguatezza dei modelli di spiegazione e al fine di proporre nuove teorie in grado spiegare meglio fatti già noti o di portare alla luce fenomeni invisibili alle teorie precedenti.

Per questa ragione l’analisi critica degli elementi teorici dovrebbe essere coltivata e valorizzata quanto quella empirica e sperimentale. Purtroppo l’epistemologia e la filosofia delle scienze biologiche e biomediche, in particolare nel settore della ricerca e della pratica clinica delle dipendenze, sono ritenute attività superflue, per molti versi esoteriche e per questo scarsamente praticate.

 

Un soggetto con dipendenza agisce in modo volontario e intenzionale o in modo obbligato?

Una questione concettuale esemplare è tra le altre quella circa il carattere volontario e intenzionale, oppure non intenzionale e in qualche modo “obbligato”, delle azioni di un individuo con dipendenza[1]. La domanda che ci si pone è se un soggetto affetto da dipendenza, ad esempio una dipendenza da sostanza, compia le azioni tipiche della ricerca e del consumo della sostanza nel possesso delle sue facoltà intenzionali minime, oppure se queste siano per alcuni versi diminuite, sospese, impedite o addirittura persino assenti. È ovvio che una risposta a questa domanda ha implicazioni dirette circa la responsabilità delle azioni che è legittimo attribuire a un dipendente. Inoltre, l’eventuale carattere volontario e intenzionale delle azioni di ricerca della sostanza potrebbero creare uno spazio di manovra utile in sede di trattamento, un ambito di possibilità di reindirizzamento della volontà del dipendente, e quindi di ristrutturazione delle sue intenzioni stesse.

 

Una definizione minima di azione intenzionale

È evidente che una domanda sull’intenzionalità delle azioni relative agli oggetti di dipendenza rimanda fondamentalmente a una definizione minima di “azione intenzionale”. Una volta che avremo questa definizione alla mano, potremo passare a verificare se i criteri per giudicare un’azione come intenzionale siano o meno soddisfatti dal soggetto dipendente. Si tratta senz’altro di una questione in prima istanza di carattere concettuale, che ha a che fare con i modi in cui definiamo la costellazione di concetti che descrivono l’universo del discorso dei comportamenti umani e delle loro cause. Una questione semantica si dipana con analisi semantiche, sui significati, con un’indagine sul linguaggio. Ma, a ben vedere, la questione su cosa sia intenzionale o compulsivo, obbligato, possiede un interesse teorico e pratico irrimandabile. Perché su questa definizione si basano i criteri che separano i comportamenti normali dalle dipendenze patologiche. Di conseguenza, analisi e definizioni più accurate e coerenti renderebbero possibile una migliore messa a fuoco di queste condizioni, una più precisa caratterizzazione dei suoi tratti patognomonici e delle sue caratteristiche fenomenologiche, così da orientare meglio la stessa ricerca clinica e di base e gli interventi terapeutici o preventivi.

 In modo tipico, un’azione è intenzionale quando il soggetto che la compie si trova in uno stato di coscienza sufficientemente affidabile, è in contatto con l’ambiente, ed è guidato dai suoi stessi desideri e dalle sue motivazioni, che generalmente si traducono in ragioni per agire. Desideri e motivazioni, tradotte nel linguaggio delle ragioni, sono la base sulla quale successivamente si forma ciò che chiamiamo intenzione. Di solito, il passo successivo è quello di procedere liberamente a compiere l’azione progettata attraverso l’intenzione.

 

Francis Bacon, Three Studies of Lucian Freud, 1969

Per un soggetto dipendente i comportamenti di ricerca e consumo di una sostanza sono intenzionali?

Ora, l’osservazione clinica e quotidiana delle azioni di ricerca e consumo della sostanza nelle dipendenze sembra indicare che i comportamenti di un soggetto dipendente soddisfino in linea di massima i criteri sopra elencati. Quando le sue azioni prendono corpo nella sua mente e iniziano a tradursi in atto, egli non è perlopiù allucinato, la sua coscienza non è interamente sequestrata da altri processi mentali che gli impediscono di avere un grado di consapevolezza e quindi una forma di controllo sulla sequenza di attività che lo porta all’uso, non si trova in stato di sonnambulismo, nessuno lo costringe con la forza. Di fatto, sembra che il soggetto dipendente pianifichi con coscienza la ricerca della sostanza sulla base delle motivazioni che ha per assumerla (perché la vuole, perché ne ha bisogno, e così via), adegui l’articolato piano di azioni complesse che consegue alla sua precisa motivazione di consumarla, e proceda da un punto di vista pratico come farebbe con qualsiasi altra scelta. È noto infatti che i soggetti regolano il consumo in funzione del prezzo della sostanza, delle situazioni, oppure per modulare i livelli di tolleranza al fine di ottenere gli stessi effetti consumando meno sostanza, e così spendendo di meno. Ed è allo stesso modo noto che possono posticipare o anticipare l’assunzione della sostanza se esistono forti ragioni per farlo. Insomma, i soggetti dipendenti non sembrano comportarsi in modo compulsivo, obbligato, automatico, per effetto di una insopprimibile forza coercitiva. Sembrano, piuttosto, a un primo sguardo, agire con intenzione, secondo lo stesso ordine di motivazioni, incentivi, costi e vincoli che determinano le normali scelte per tutti gli individui.

Purtroppo, tuttavia, la dipendenza non può essere inquadrata unicamente concentrandosi su questi criteri. A ben vedere, infatti, quando si agisce intenzionalmente, nel pieno delle proprie facoltà volontarie, altre condizioni generali devono essere soddisfatte.

 

Le condizioni necessarie all’azione intenzionale

Tra le condizioni necessarie all’azione intenzionale, di capitale importanza è la possibilità che una persona abbia realmente a disposizione corsi alternativi di azioni . Vi è un intenso dibatto metafisico sul significato di quest’ultima affermazione, dal momento che esso è relativo anche al problema della volontà libera. Per comodità, tuttavia, possiamo cercare di semplificare nel modo seguente: se un soggetto S decide di intraprendere un certo corso d’azione, ad esempio comperare un libro, questa azione è intenzionale quando S può decidere e agire senza che nulla che sia indipendente da lui e dalla sua più piena facoltà di giudizio gli impedisca di poter decidere in modo diverso e quindi agire differentemente. Di fronte al libro in vendita, egli deve poter indifferentemente procedere a comprarlo oppure no, entrambe le possibilità devono essere genuinamente aperte di fronte a lui. In questa apertura, la sua scelta di acquistare è determinata  dalle ragioni di procedere all’acquisto che egli in coscienza e senza coercizioni decide che “pesino di più” di dei motivi per non acquistarlo. L’iniziativa di agire acquistando è in questo modo libera.

Naturalmente, è vero che se S ha le ragioni che ha, le quali infine prevalgono e dirigono la sua volontà, allora rimane un senso in cui S, in fondo, non avrebbe davvero potuto agire diversamente, date appunto queste ragioni. Sono peraltro ragioni che a loro volta dipendono dalla sua personalità, dalla sua storia, dai suoi interessi, dalla situazione contingente, dalla persona che è. Qualcuno ha chiamato questo percorso per così dire obbligato della volontà con la felice e ormai famosa espressione di “necessità volizionale”[2]. D’altra parte, entro una certa misura, spesso anche ampia, immaginiamo che S di fatto abbia la facoltà di intervenire nel “gioco dei pesi” delle ragioni a favore o contro l’acquisto del libro. Ciò sembra suggerito dal fatto che non sempre le ragioni che si hanno in prima istanza finiscono per prevalere, soprattutto quando le si soppesano e le si confrontano con opposte ragioni, che potremmo in coscienza decidere di far prevalere. Mettiamo spesso in atto questo processo quando decidiamo: ragionando, immaginando con attenzione le conseguenze delle nostre azioni, valutando le cose da un’altra prospettiva, cercando e esplorando nuove informazioni, oppure accogliendo parte del punto di vista di altri. In questo modo possiamo aggiungere, togliere e spostare i pesi sulla bilancia decisionale e modificare così gli equilibri che ci si presentano spontaneamente. Per questo pensiamo che le nostre ragioni siano nelle nostre mani e sotto il nostro controllo pratico.

 

Dalle intenzioni, decisioni e volontà nelle dipendenze

Tornando al caso del soggetto dipendente, la situazione in cui si trova sembra allora essere la seguente: da una parte, egli sembra agire intenzionalmente sulla base delle ragioni e motivazioni che ha per assumere la sostanza, soddisfacendo così i criteri minimi per l’azione intenzionale; dall’altra, l’osservazione globale del suo comportamento pare indicare che gli strumenti con cui può agire sulla sua bilancia decisionale sono in parte compromessi, cosicché egli ha difficoltà a comportarsi diversamente dal modo in cui i suoi appetiti intrusivi lo spingono a fare.

Si presentano infatti alcune particolarità, nei processi motivazionali e decisionali dei soggetti dipendenti, che concorrono a determinare questa compromissione. Tra questi vi sono le distorsioni percettive e cognitive determinate dagli appetiti, dal craving verso la sostanza, strutturate dai processi di neuroadattamento e dalle spinte della sindrome d’astinenza. Queste distorsioni indirizzano l’attenzione verso gli stimoli interni ed esterni legati alla sostanza e ai suoi effetti e in questo modo causano una costruzione fortemente prospettica ed estremamente limitata del mondo in cui i soggetti dipendenti vivono, che non lascia veramente spazio alla pianificazione di percorsi di azione alternativi e al loro perseguimento.

Il craving e l’evitamento dei sintomi indesiderati della sindrome d’astinenza contribuiscono inoltre a distorcere la bilancia motivazionale, alterano pesantemente la coppia di forze che determina il comportamento risultante, amplificando in modo artificiale la dimensione delle spinte motivazionali verso il consumo, anche in antitesi alle ragioni coscientemente presenti che suggeriscono il valore dell’astinenza.

Anche la relativa capacità di tenere presenti e soppesare le conseguenze nel tempo delle nostre azioni, dovuta al modo in cui tendenzialmente svalutiamo il futuro rispetto alle cose attuali (uno sconto temporale che diventa molto più elevato in chi abusa di sostanze) concorre a compromettere il controllo cognitivo e volontario. Questa incapacità di apprezzare il senso e il peso del nostro futuro determina infatti una condizione di relativa ignoranza e un vizio cognitivo che ostacolano la manipolazione intenzionale dei pesi, delle misure e delle ragioni per usare o meno una sostanza.

Per tutto ciò, l’azione intenzionale di raggiungere e consumare la sostanza somiglia a un’abitudine profonda controllata più da fattori esterni che dal soggetto; sembra costituire un pregiudizio incorporato, difficilmente pervio all’esplorazione cognitiva e al controllo volontario.

Ciò, peraltro, pare coerente con le caratteristiche oscillazioni delle preferenze dei soggetti dipendenti che decidono di smettere; i tipici e frequenti ribaltamenti volizionali tra astinenza e ricadute, che accompagnano i tentativi di interrompere l’uso. La presenza di disfunzioni e distorsioni nei processi decisionali e motivazionali sembra inoltre testimoniata dal fatto che, sebbene i soggetti dipendenti possano aver chiaro che la sostanza li danneggia, la loro volontà e le loro motivazioni non incorporano come dovrebbero il peso di questa ragione a sfavore dell’assunzione.

In conclusione, le azioni del dipendente possono essere in un senso minimo intenzionali, e tuttavia la sua volontà non essere veramente libera. A ben vedere, però, e a complicare le cose, questa condizione potrebbe valere solo per quegli individui che percepiscono di vivere una condizione di dipendenza, per quelle persone, cioè, che avvertono la necessità di smettere, che hanno l’intenzione di smettere, ma che non riescono a far valere questa volontà. Se questa intenzione non si presenta, non può sussistere lo stallo della volontà e quindi, conseguentemente, la condizione problematica. Un soggetto potrebbe infatti volere il consumo cronico, anche pesante, perché può trovare in questo comportamento una qualche forma di utilità relativa. Si immagini ad esempio un soggetto in una qualche condizione esistenziale o materiale disperante. Oppure un soggetto potrebbe avere una forma insufficiente, confusa, superficiale di consapevolezza delle conseguenze negative di questi comportamenti, una conoscenza incapace di innescare azioni volte a ridurre il consumo e a superare il rapporto problematico con la sostanza.

 

Le dipendenze come caso paradigmatico dei limiti della volontà umana

La condizione in cui si è consapevoli di vivere una situazione problematica o non più desiderata, e in cui si ha l’intenzione di superarla che però non riesce a tradursi in atto, è una situazione tipica di una enorme gamma di stalli comportamentali non patologizzati. Vive ad esempio in questa condizione anche chi ha l’intenzione di vincere la sua sedentarietà per ragioni di salute, ma non riesce a rimettersi in moto, a dispetto della consapevolezza delle conseguenze negative e nonostante gli sforzi che mette in campo. Nella stessa situazione si trova anche chi vuole perdere qualche chilo di peso astenendosi dai dolci, o chi ha la pericolosa abitudine di procrastinare e mettersi sul serio a lavorare per portare a termine un impegno solo quando la scadenza è drammaticamente imminente. La condizione di dipendenza sembra rappresentare un caso estremo, ma su un continuum di problematicità di casi comuni di bilance decisionali distorte dalla valenza del piacere, dalle inerzie delle abitudini, dal peso dell’impegno a cambiare. Capire meglio le dipendenze potrebbe allora permetterci di comprendere più chiaramente tutto questo insieme di comportamenti non patologizzati, ma di certo potenzialmente patogeni, capaci di sedimentare strati causali di processi e situazioni che possono addirittura concorrere all’insorgenza di forme di dipendenza patologica.

Allora, per riprendere e concludere, le azioni di un soggetto dipendente, sono intenzionali, ma non realmente libere, come gran parte dei nostri comportamenti normali, perché nelle sue scelte (come in parte nelle nostre) la percezione delle alternative e la possibilità di manipolarne i pesi motivazionali sono soggette a limiti più o meno consistenti. Ciò suggerisce che la cura nelle dipendenze, così come la cura delle nostre normali condizioni, dovrebbe sempre puntare anche a potenziare la capacità di prendere visione delle alternative che si hanno a disposizione, di sentire e di pesare in modo più articolato il loro valore rispetto alle rappresentazioni che si hanno di sé nel presente e nel tempo. Si tratta dell’ideale della ricerca della conoscenza critica, razionale, causale predicata già da Platone e Aristotele, quella che – al contrario delle opinioni vaghe – può garantire intenzioni salde, volontà efficiente, più libera, e quindi azioni virtuose. È ciò che oggi chiamiamo empowerment cognitivo, una forma di abilitazione mentale capace di aumentare la massa e la forza dei fattori razionali e motivazionali alternativi al consumo e così contribuire a stabilire condizioni più libere per l’esercizio della volontà. Per il soggetto dipendente ciò può significare il superamento della sua condizione, per tutti gli altri la capacità di gestire in modo più competente e responsabile il peso delle variabili che condizionano la vita e il benessere di ciascuno, compresa la stessa vulnerabilità di fronte alle sostanze psicoattive.

Stefano Canali e Patrizia Pedrini

 

Riferimenti bibliografici

[1] Cf. Heather, N., & Segal, G., 2015. “Is addiction a myth? Donald Davidson’s solution to the problem of akrasia says not”, International Journal of Alcohol and Drug Research, 4(1), 77-83. Davidson, D. 1980a. “How is Weakness of the Will Possible?”, in Id., Essays on Actions and Events, 21-42, Oxford: Oxford University Press. Davidson, D. 1980b. “Intending”, in Id., Essays on Actions and Events, 83-102, Oxford: Oxford University Press.

[2] Frankfurt, Harry, 1969. “Alternate Possibilities and Moral Responsibility,” Journal of Philosophy, 66: 829–39. Reprinted in Fischer (ed.) 1986 and Frankfurt 1987. Id., 2002. “Reply to John Martin Fischer,” In Buss and Overton (eds.) 2002, 27–31. Id., 1999. Necessity, Volition, and Love, Cambridge: Cambridge University Press. Id. 1994. “Autonomy, Necessity, and Love,” in Fulda and Horstman (eds.), 1994. Reprinted in Frankfurt, 1999. Id., 1988. The Importance of What We Care About, Cambridge: Cambridge University Press. Id. 1987. “Identification and Wholeheartedness,” in Schoeman (ed.) 1987. Reprinted in Frankfurt, 1999. Id., 1971. “Freedom of the Will and the Concept of a Person,” Journal of Philosophy, 68: 5–20. Reprinted in Fischer (ed.), 1986; Frankfurt, 1987; and Watson (ed.), 1982. Id.

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