Guarire attraverso il racconto personale delle dipendenze. La narrazione soggettiva dall’autoinganno all’autocontrollo

L’immagine di sé e il modo in cui ci si racconta agli altri, la narrazione soggettiva, hanno una influenza rilevante sulla vita delle persone, perché condizionano la maniera con cui gli altri si pongono in relazione con noi e perché le nostre narrazioni concorrono a determinare i giudizi di valore che diamo al nostro comportamento, la nostra disponibilità a impegnarci per cambiarlo o mantenerlo. Ciò ha un rilievo ancora maggiore per condizioni esistenziali problematiche come le dipendenze.

Il racconto di sé dipende dal contesto e dagli interlocutori

Salvador Dalì, Galatea delle sfere, 1952

Un esperimento condotto nel 1987 da Davies e Baker[1] e discusso da Heather & Segal (2015)[2] offre un’interessante finestra di accesso sulla concezione di sé che ha il soggetto che vive una dipendenza. Allo stesso tempo questo esperimento illumina alcune questioni che riguardano la disponibilità dell’esperienza soggettiva ad auto-interpretazioni variabili e fortemente condizionate dal contesto e dall’interlocutore.

Una ventina di maschi adulti eroinomani, di età media di 20.1 anni (tutti tra i 17 e i 24 anni) furono chiamati a rispondere a due interviste strutturate a distanza di 10-14 giorni. I questionari erano del formato tipico di quelli che vengono regolarmente sottoposti negli studi sull’uso di sostanze, sugli atteggiamenti nei confronti del consumo, su eventuali azioni criminali collegate e sulle ragioni per il consumo. Il primo giro di interviste fu condotto da un eroinomane di 26 anni conosciuto in zona che si presentò come arruolato da una vicina università per aiutare a condurre la ricerca, mentre il secondo fu realizzato da un quarantenne non dipendente da sostanze che si presentò come un ricercatore universitario. Fu poi proposto ai soggetti di sottoporsi a un ulteriore questionario, indicato come legato a uno studio del tutto diverso, senza alcuna connessione con il primo.

I risultati generali dell’esperimento dimostrarono che i soggetti, quando furono intervistati dal ricercatore, presentarono se stessi come assai più fortemente dipendenti di quanto non avessero fatto durante l’intervista col ragazzo eroinomane. Con quest’ultimo, riportarono risposte che suggerivano di essere maggiormente in controllo del loro comportamento di consumatori di sostanze e di avere maggiore margine di scelta nell’assunzione e astensione dal consumo. In una successiva discussione di questo esperimento, Davies scrive quanto segue: “Le persone sono capaci di costruire le loro spiegazioni sulla base della conoscenza e dell’esperienza delle attribuzioni che gli altri probabilmente faranno su di loro; e quando questo succede, si può dire che l’attribuzione abbia una componente strategica” (1997 p.122, corsivo nell’originale, traduzione nostra)[3]. In seguito, altri esperimenti di Davies e colleghi[4] rafforzarono la dimostrazione che ciò che le persone dicono circa la loro dipendenza varia a seconda della persona con cui stanno parlando, e del contesto in cui si trovano, piuttosto che produrre narrazioni costanti delle proprie condizioni somatiche, nervose, psicologiche e sociali.

 

Dalla molteplicità delle narrative all’autoinganno

Questi risultati non sono nuovi, né il filosofia della mente né in psicologia generale: l’affidabilità del racconto, delle narrazioni di sé, è infatti stata da tempo messa discussione anche al di fuori della clinica delle dipendenze[5]. Generalmente, le persone riferiscono di se stesse molte cose distanti dal loro effettivo modo di essere e di fare. Ciò può accadere nel tentativo di presentarsi in maniere accettabili per se stessi o per gli altri, o per se stessi in relazione agli altri[6]. Forse ancor più frequentemente questo succede senza intenzioni malevole e spesso senza scopi consapevolmente strumentali, cioè al fine di ottenere vantaggi particolari: credendo anche alla veridicità del proprio racconto, cadendo nell’autoinganno. I soggetti, infatti, non necessariamente mentono sul loro stato, come potrebbe suggerire il commento di Davies quando parla di “componente strategica”. Ovvio, non si possa escludere che qualche soggetto menta in modo consapevole, quando presenta se stesso in maniera diversa a seconda dell’interlocutore. Tuttavia, vista la pervasività dell’autoinganno e delle narrazioni di sé, dei self-reports inaffidabili fatti in buona fede, non è peregrino immaginare che uno stato di esperienza soggettiva per sua natura si offra a essere inquadrato attraverso schemi concettuali differenti.

 

Il lavoro sulla narrazione nella cura delle dipendenze

Questa “camaleontica” capacità dell’esperienza umana di farsi catturare da reti concettuali diverse a seconda dei contesti sembra però anche offrire un cruciale invito a sfruttarla in sede terapeutica per avviare il recupero dalla dipendenza, che passa necessariamente anche attraverso una revisione del modo di rappresentare e di raccontare la propria condizione clinica. Non sembra un caso, infatti, che i soggetti intervistati nell’esperimento visto sopra si concepiscano e si raccontino come fortemente dipendenti proprio di fronte al ricercatore che suppongono esperto della loro condizione: questo li predispone di fatto ad affidarsi alla scienza, alla pratica biomedica, a esperti accreditati, piuttosto che continuare a ingannare se stessi circa la loro capacità di controllare il consumo della sostanza.

Il passaggio nel riconoscimento di aver problemi col controllo dell’uso di una sostanza è evidentemente cruciale per avviarsi a una piena riabilitazione della volontà e della propria personale autonomia. Questa consapevolezza ad esempio è ritenuta imprescindibile nel metodo degli Alcolisti Anonimi in cui il primo dei dodici passi recita: “Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte all’alcol e che le nostre vite erano divenute incontrollabili.” Si veda a questo proposito il post sul ruolo delle narrazioni e i correlati neurocognitivi nel metodo di alcolisiti anonimi.

Tuttavia, a mio avviso, sul piano operativo si dovrebbe puntare maggiormente al lavoro sulla narrazione di sé. Perché la cognizione della propria condizione di discontrollo passa anche attraverso una profonda revisione del modo in cui questa viene narrata da chi la soffre. D’altra parte le narrazioni di sé non solo il semplice strumento con cui comunichiamo agli altri i nostri stati mentali, le nostre impressioni, il nostro rapporto e le nostre interpretazioni dei fenomeni che ci riguardano o ci interessano. È infatti solo attraverso il racconto, e per mezzo del linguaggio con cui può prendere corpo il racconto, che noi costruiamo ordine e identità riconoscibili dal magmatico, e altrimenti inafferrabile, flusso incoerente delle attività psichiche. Così, sono le parole e il racconto i dispositivi che rendono possibile concepire un’immagine di noi stessi, di dar un senso alle nostre azioni (di cambiare in caso questo senso), di giudicare in modo consapevole il valore che queste hanno per noi e la nostra vita, quella delle persone che abbiamo care, di elaborare ragionamenti e dar peso esplicito ai pesi motivazionali che indirizzano le nostre decisioni. E sono le parole e i racconti, quindi, che ci permettono di provare a scegliere corsi di azioni diverse da quelle verso cui ci spingono gli impulsi, gli appetiti, le abitudini, le cose da cui dipendiamo e tutto l’universo sterminato dei vettori di forza inconsci che ordiscono il nostro agire. Ne parliamo in modo più specifico nel post “Storie, narratività, dipendenze”

 

Il racconto scientifico, la consapevolezza della dipendenza e il recupero del controllo

Un’idea potrebbe essere quella di favorire allo stesso tempo lo sviluppo della consapevolezza di aver problemi col controllo del consumo e il racconto di questa condizione anche usando la narrazione che ne fa la scienza. Si potrebbe cioè tentare di utilizzare il modo con cui la ricerca scientifica spiega i processi biologici e mentali di controllo del comportamento, le ragioni del discontrollo che può derivare dall’esposizione a certi stimoli o dal reiterare certe azioni, le dinamiche con cui certe pratiche terapeutiche e rieducative possono portare a ristabilire una funzionalità personale soddisfacente. Tutto ciò peraltro è riferibile non solo al consumo di droghe ma più in generale a tutti gli ambiti problematici dei nostri comportamenti. La narrazione scientifica inoltre si sviluppa attraverso un sistema di concettualizzazione per determinismi, modelli esplicativi razionali di processi funzionali, quindi per mezzo di una forma di conoscenza causale. Si tratta di una epistemologia forte e densamente strutturata che, come suggeriscono le ricerche, concorre a dar senso, prospettiva, coerenza al proprio comportamento. Un grado più elevato di coerenza e comprensione causale del proprio comportamento aumenta il controllo delle proprie dinamiche impulsive, dei propri appetiti, della tendenza a cadere negli automatismi e in generale di tutte le proprie azioni, non solo del desiderio e del consumo delle sostanze. In questo senso, il lavoro sulla narrazione attraverso il racconto delle scienze, delle neuroscienze, delle scienze cognitive e psicosociali può concorrere a rafforzare trasversalmente le funzioni esecutive degli individui impegnati nel recupero dalle dipendenze. E rinforzando le loro capacità di funzionare nel mondo e nei rapporti che hanno col loro corpo, con se stessi e con gli altri, si possono ridurre le occasioni di disagio e di stress che tanto peso hanno nel consumo di sostanze e nelle ricadute.

Stefano Canali e Patrizia Pedrini

Riferimenti bibliografici

[1] Davis, J. B. & Baker, R., 1987. The impact of of self-presentation and interviewer bias effects on self-reported heroin users”, British Journal of Addiction, 82: 907-912.

[2] Heather, N., & Segal, G., 2015. “Is addiction a myth? Donald Davidson’s solution to the problem of akrasia says not”, International Journal of Alcohol and Drug Research, 4(1), 77-83.

[3] Davies, J. B., 1997. The myth of addiction (second edition). Reading, England: Harwood Academic Publisher.

[4] White, M. & Davies, J., B. 1998. “The effects of context and sensitivity on self-reported attitudes towards drugs”, Journal of Substance Misuse, 3: 213-220. Heim, D., Davies, J., B. Cheyne, B., & Smallwood, J., 2001. “Addiction as functional representation”, Journal of Community & Applied Social Psychology, 11: 57-62. Davies, J., B. McConnochie, F., Ross, A., Heim, D. & Wallace, B., 2004. “Evidence of Social Learning in the self-representation of alcohol problems. Alcohol & Alcoholism, 39: 346-350.

[5] Nisbett, R., & Wilson, T., 1977. “Telling more than we can know: verbal reports on mental processes. The Psychological Review, 3: 231-259. Hirstein, W. 2004. Brain Fiction: Self-Deception and the Riddle of Confabulation. MIT Press, Boston, MA.

[6] Cfr. Pedrini, P. L’autoinganno. Che cos’è e come funziona, 2013, Laterza, Roma-Bari.

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