Il contraddittorio empirismo del DSM-5 e le dipendenze

L’approccio ateoretico e l’impianto meramente statistico del DSM-5 sono stati accusati di riflettere un atteggiamento di cieco empirismo. Non si tratta in questo caso di mettere in questione la validità dell’aderenza ai fatti e la necessità di raccogliere evidenze. L’accusa viene piuttosto mossa alla metodologia e alle procedure statistiche con cui i “fatti”, in questo caso disturbi mentali come la dipendenza, vengono individuati, o forse sarebbe meglio dire, costruiti, definiti come entità patologiche.

Riferendosi a disturbi del comportamento i fatti sono soltanto le singole manifestazioni che concorrono a esprimere e porre in atto un comportamento patologico, il quale, come ogni comportamento, ha una natura complessa, relazionale, rapportata a situazioni, valori, interazioni sociali. Nella definizione di una malattia mentale, nella diagnostica e anche nella pratica psichiatrica invece il fatto, il disturbo mentale, è concepito in realtà come un certo insieme di questi singoli fatti – i sintomi – che statisticamente sembrano presentarsi in modo coordinato e ricorrente. Ma un insieme così concepito non è appunto un fatto, ma un costrutto teorico. Al di là di questa brevissima puntualizzazione epistemologica, esistono nei DSM ulteriori e precise debolezze nelle stesse procedure statistiche di costruzione di queste entità morbose come la dipendenza.

I criteri diagnostici del DSM sono certamente ottenuti a partire da indagini estensive e ricerche psicometriche assai sofisticate tuttavia le tecniche statistiche di analisi multivariata dei dati sono basate su misurazioni controverse e imprecise. Un problema rilevante è che i dati su cui queste analisi si fondano sono ottenuti attraverso colloqui strutturati concepiti per misurare la classificazione diagnostica a livello sindromico, del disturbo, non al livello dei singoli sintomi – i fatti – e quindi dei criteri. Di conseguenza, le analisi dei dati così raccolti possono essere soggette a seri errori di misurazione.

Alcuni item, come quelli destinati a misurare la tolleranza e la sindrome d’astinenza, sembrano formulati poco chiaramente rispetto alla complessità e la variabilità con cui possono manifestarsi questi sintomi, di conseguenza possono essere male interpretati. Ad esempio, i giovani che praticano frequentemente il binge drinking, rispondendo agli item possono fare confusione tra la rapida tolleranza iniziale con quella acquisita da un lungo periodo di forte uso quotidiano di alcol oppure non distinguere certi postumi di una sbornia con alcuni aspetti propri della vera sindrome d’astinenza alcolica. Proprio questa confusione potrebbe essere all’origine dell’apparente epidemia di dipendenza dall’alcol tra giovani senza una storia di uso cronico di bevande alcoliche[1].

Come sostiene Babor, il problema non risiede necessariamente nei criteri ma piuttosto nelle definizioni operative degli item messe a punto per misurare i criteri stessi durante il colloquio psichiatrico[2]. Dunque se non si introdurranno correttivi per operazionalizzare meglio alcuni criteri diagnostici si andrà certamente incontro a un fittizio aumento della già inaccurata prevalenza stimata delle dipendenze.

[1] Caetano R., Babor T. Diagnosis of alcohol dependence in epidemiological surveys: an epidemic of youthful alcohol dependence or a case of measurement error? In: SaundersJ. B., SchuckitM. A., SirovatkaP. J., RegierD. A., editors. Diagnostic Issues in Substance Use Disorders: Refining the Research Agenda for DSM-V. Washington: American Psychiatric Association; 2007, p. 195202.

[2] Babor, T.F. (2011). Substance, not semantics, is the issue: comments on the proposed addiction criteria for DSM-V. Addiction, 106, 870– 72.

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Stefano Canali

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