Dipendenze e autoinganno

Il filosofo Ludwig Wittgenstein ebbe a dire una volta che “non c’è niente di più difficile che il non ingannar se stessi”. L’autoinganno è infatti un fenomeno psicologico pervasivo, da cui nessuno è completamente immune e che risulta uno dei tratti ricorrenti di tutte le forme di dipendenza, da sostanze o comportamentali[1]. Negli ultimi trent’anni sono stati fatti enormi progressi nella comprensione dei meccanismi cognitivi, emotivi e motivazionali che inducono un individuo a finire nell’insidiosa trappola dell’autoinganno. Si tratta di una trappola che la nostra stessa mente ci tende, prevalentemente a nostra insaputa. Psicologia evoluzionista, neuroscienze, filosofia della mente e altre discipline contigue si sono concentrate con attenzione su questo tema e il dibattito è più che mai aperto e vivace[2].

Tra gli autori che maggiormente se ne occupano resta una certa discordanza su alcuni retroscena causali del fenomeno, e anche sulla sua esatta fenomenologia, cioè sul modo in cui si presenta, sul suo decorso di massima e su ciò che nel soggetto mina da un punto di vista etico, pratico e anche intellettuale. Tuttavia, credo che non sia azzardato sostenere che si è raggiunto un accordo di massima su ciò in cui l’autoinganno consiste: l’incapacità (presumibilmente temporanea, ma non necessariamente) di formarsi un’immagine corretta e disinteressata di una certa situazione e di certi aspetti di noi stessi, degli altri e più in generale del mondo, innescata da una potente spinta motivazionale a non accettare, accogliere, integrare, affrontare o gestire una realtà che sarebbe dolorosa, ansiogena o in altro modo emotivamente e cognitivamente destabilizzante, come ovviamente un rapporto problematico con una sostanza o un comportamento. In altre parole, non si tratta di una fenomeno di mero errore di valutazione dovuto a carenza di informazioni relative alla realtà, nostra, altrui o generale, né di un’incapacità epistemica, conoscitiva, a trattare l’evidenza a nostra disposizione dovuta a scarse competenze concettuali, di ragionamento. In questo In modo analogo l’autoinganno non dipende da impossibilità oggettive legate alla nostra architettura cognitiva, notoriamente imperfetta e dotata di capacità computazionali e di elaborazione finite. In questo caso, gli errori di rappresentazione della realtà sarebbero ancora una volta imputabili a forme di irrazionalità intrinseche alla nostra evoluzione cognitiva come specie e, di nuovo, non ci sarebbe alcuna forma di “interesse”, nessuna spinta motivazionale da parte del soggetto, ad assumere un risultato doxastico scorretto, cioè una errata credenza. Il caso dell’autoinganno appartiene invece a una più vasta famiglia di fenomeni noti come “irrazionalità motivata”[3]. Esiste cioè un “motivo” per il quale il soggetto non procede alla valutazione corretta della realtà e si rifugia in “storie di copertura” che non lo costringano a confrontarsi con qualcosa di doloroso. Questo motivo che induce il soggetto in autoinganno lavora prevalentemente al di sotto della soglia di coscienza, sebbene parte del processo di ragionamento che conduce il soggetto a formarsi un’immagine “pregiudiziale” della realtà sia largamente accessibile dallo stesso. Quello che tuttavia il soggetto non riesce a vedere è che si trova intrappolato in un excursus psicologico che è innescato dal suo desiderio che le cose stiano in un certo modo, invece che nel modo (destabilizzante per il soggetto) che l’evidenza ampiamente suggerisce, o perlomeno induce ragionevolmente a sospettare.

Vi sono molte distinzioni che meritano di essere tracciate e affrontate, quando si parla di autoinganno e, sebbene la struttura generale del fenomeno sia rinvenibile in pressoché tutti i casi, vi sono variabili di innesco e decorso legate alla psicologia del caso singolo che non possono e non devono essere trascurate da chi lo tratta e in particolare nella clinica delle dipendenze.

Notoriamente, uno dei terreni psicologici più fertili in cui l’autoinganno attecchisce è l’affettività, sia essa interpersonale, relazionale, ma anche “intra-personale”, cioè legata ad aspetti di noi stessi che per ragioni di formazione, crescita, educazione, esperienza e cultura ci sono care e che consideriamo perciò irrinunciabili. Tutte le forme di affettività portano con sé un certo grado di dipendenza, il che costituisce un fattore che deve essere computato per comprendere perché il soggetto non accetta volentieri fatti che lo indurrebbero a dover rivedere aspetti di sé o degli altri che costituiscono la sua identità cognitiva ed emotiva, e sulle quali si struttura gran parte del senso che egli dà alla sua stessa vita[4].

Ora, un caso limite e particolarmente grave di dipendenza è naturalmente quello che si manifesta nell’abuso di sostanze, generalmente considerate probabili sostituti di relazioni affettive impossibili, difettose o mancanti. Molto spesso, il clinico che tratta i casi di dipendenza da sostanze entra prepotentemente in contatto con il fenomeno dell’autoinganno e lo può osservare in una delle sue modalità più drammatiche. Esso non si presenta solo nei casi di cosiddetta “inconsapevolezza di malattia”, dove il soggetto dipendente non si rende conto di essere afflitto da una patologia come la dipendenza da sostanze, ma anche in tutti quei casi in cui il soggetto, chiedendo attivamente aiuto, mostra di conoscere il suo stato, ma si trova tuttavia spesso a dover affrontare l’innesco delle ricadute, tipicamente segnate da un abbassamento della soglia motivazionale che lo ha portato a cercare aiuto clinico. Queste ricadute si muovono generalmente in tandem con un parallelo abbassamento della soglia di resistenza all’evidenza della propria dipendenza. E’ nel “gioco perverso” della ricaduta che l’autoinganno aggredisce nuovamente il soggetto, erodendo nuovamente la sua capacità di giudicare con lucidità ciò che gli è accaduto e ciò che sta nuovamente accadendogli, inducendolo a credere ad esempio che non succederà nulla di grave se cede al desiderio della sostanza, o che sarà facile gestire l’“eccezione alla regola”. Così come il craving lavora “meschinamente” delle retrovie della mente del dipendente per abbassare le risorse motivazionali del soggetto che intende liberarsi dalla dipendenza, così l’autoinganno lo coadiuva nel convincerlo che le sue risorse motivazionali siano integre e autonome.

Questo non significa che il paziente non possa riacquistare la sua piena autonomia di soggetto capace e volontario, uscendo quindi dalla dipendenza e dal ciclo delle ricadute. Non è necessario ipotizzare alcuna “tunnel view” della dipendenza. Significa soltanto che quanto più il clinico e il paziente siano resi avvertiti dei meccanismi motivazionali e cognitivi coinvolti nei fenomeni di dipendenza, autoinganno incluso, tanto più percorribile sarà la strada della presa di consapevolezza piena da parte del paziente di tutto ciò che è nemico del ripristino della sua più completa volontà autonoma e così – sperabilmente – la sua piena riabilitazione o il raggiungimento di una condizione di controllo del comportamento che gli garantisca una soddisfacente funzionalità.

Di Patrizia Pedrini e Stefano Canali

[1] Richards HJ, Pai SM, Deception in prison assessment of substance abuse. J Subst Abuse Treat. 2003 Mar; 24(2):121-8; Martínez-González JM, Vilar López R, Becoña Iglesias E, Verdejo-García A. Self-deception as a mechanism for the maintenance of drug addiction. Psicothema. 2016;28(1):13-9; Ferrari JR, Groh DR, Rulka G, Jason LA, Davis MI. Coming to Terms With Reality: Predictors of Self-deception Within Substance Abuse Recovery. Addict Disord Their Treat. 2008 Dec 1;7(4):210-218.

[2] Per un dibattito relativamente aggiornato in lingua italiana sul tema e sulle principali discussioni in corso nella letteratura anglosassone, si veda P. Pedrini, L’autoinganno. Che cos’è e come funziona, 2013, Laterza, Roma-Bari

[3] Per un precoce isolamento del fenomeno nella letteratura anglosassone, si veda D. F. Pears, Motivated Irrationality, 1984, Oxford University Press, New York.

[4]La maggior parte degli esempi che si trovano in letteratura dei casi di autoinganno presentano situazioni nelle quali il soggetto si trova a dover affrontare evidenze che suggeriscono ipotesi “sensibili”, cioè ipotesi che, qualora si rivelassero corrette, toccherebbero i punti nevralgici della vita affettiva, emotiva e cognitiva del soggetto. Queste ipotesi, una volta convalidate, sarebbero fortemente difficili accettare e integrare nella visione del mondo, di se stesso e della vita del soggetto, pena un drastico e doloroso mutamento della medesima. Per una carrellata dei principali esempi di autoinganno e la letteratura che li documenta, si rimanda a P. Pedrini, cit., cap. 1.

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