Intenzioni, volontà, autocontrollo, mindfulness e trattamento delle dipendenze

Fernand Léger, Les Fumeurs (I fumatori), 1911-1912, olio su tela, 129.2 x 96.5 cm, Solomon R. Guggenheim Museum, New York
Fernand Léger, Les Fumeurs (I fumatori), 1911-1912, olio su tela, 129.2 x 96.5 cm, Solomon R. Guggenheim Museum, New York

Le intenzioni, l’esercizio costante della volontà, sono comunemente ritenuti fattori essenziali di un processo di cambiamento, come ad esempio la riabilitazione da una condizione di dipendenza. Questa concezione sembra tuttavia trascurare il fatto che una parte consistente dei processi che determinano il comportamento, specialmente le abitudini, non avvengono a livello cosciente, la dimensione su cui invece si realizzano le intenzioni e il controllo volontario.

Il comportamento è costantemente modellato ed espresso da processi cognitivi, espliciti, coscienti, verbalizzabili quindi suscettibili di controllo volontario. Allo stesso tempo però le decisioni e le azioni dipendono, quando non sono interamente determinate, da processi di tipo implicito, inconsapevole: memorie procedurali, automatismi legati a stimoli innesco nell’ambiente o interni all’organismo. Molti studi dimostrano che almeno la metà del nostro comportamento si realizza in questo modo, in azioni abituali che si eseguono senza l’intervento della coscienza e della volontà consapevole e sono innescate da elementi e segnali dell’ambiente esterno o provenienti dall’organismo: lavarsi la faccia o dirigersi al bagno appena svegli, dirigersi verso il frigo e mangiare qualcosa, entrare a casa e posare le chiavi sul primo mobile del corridoio, verificare sullo smartphone se sono arrivate notifiche di messaggi e così via.

Ciò vale anche nel caso di abitudini eccessive, di azioni compulsive, come talora sono le dipendenze. Tale modello di spiegazione del comportamento rende legittimo immaginare strategie per modificare le abitudini – e quindi intervenire sulle dipendenze – che non cercano di far leva sulle intenzioni o sul controllo volontario del comportamento. Queste ultime funzioni sembrano peraltro l’elemento patologico centrale nella dipendenze e risulta di conseguenza assai complicato usare intenzione e volontà deboli e compromesse per superare la compulsività del consumo di una sostanza o di un determinato comportamento, come nel caso del gioco d’azzardo.

Ma in che modo è possibile modellare la componente implicita, procedurale e automatica delle dipendenze?

È possibile ad esempio intervenire farmacologicamente per tentare di estinguere un comportamento d’abuso, l’associazione tra stimoli predittivi della ricompensa, inneschi ambientali o interni e consumo di sostanza. Le sostanze d’abuso forzano nel cervello l’attivazione del sistema della dopamina e l’attivazione del sistema degli oppioidi endogeni, e questo costituisce il rinforzo del comportamento: l’elemento che favorisce la ripetizione del comportamento e poi la sua fissazione, il suo carattere compulsivo. Ciò suggerisce, come sperimentato negli studi su alcolisti[1], di somministrare una sostanza in grado di bloccare tali attivazioni, ad esempio il naltrexone, e avviare così una progressiva eliminazione della compulsione al bere, in virtù del sistematico blocco della ricompensa. Senza un rinforzo, un incentivo, un comportamento tende naturalmente a estinguersi.

Sembra poi possibile modellare la componente implicita, inconscia, procedurale e automatica delle dipendenze in modo puramente comportamentale, ad esempio con la tecnica del condizionamento valutativo. Il condizionamento valutativo tende a fissare l’associazione tra uno stimolo o esperienza affettivamente carichi (piacevoli o spiacevoli) con uno stimolo o esperienza neutra, che in virtù di questa associazione appresa diventeranno positivi o negativi. Un interessante studio ha utilizzato il paradigma del condizionamento valutativo per verificare la sua capacità di modificare l’atteggiamento verso l’alcol[2]. I partecipanti allo studio dovevano individuare delle immagini bersaglio irrilevanti durante una serie di prove in cui venivano contemporaneamente somministrati altri diversi stimoli. Nella condizione sperimentale le immagini legate alla birra venivano costantemente associate a parole o immagini negative. Al gruppo di controllo erano invece somministrate le stesse immagini senza l’accoppiamento negativo. In un secondo esperimento sono stati misurati l’atteggiamento verso la birra, il craving per la birra, e l’effettivo consumo di birra durante un finto test di assaggio e durante la settimana successiva. Rispetto al gruppo di controllo, i soggetti sottoposti a condizionamento valutativo hanno mostrato maggiori attitudini negative verso la birra, minor craving e minor consumo sia durante il test in laboratorio che durante la settimana successiva.

Si può poi tentare di promuovere la riduzione del consumo di sostanze o l’astinenza indipendentemente dalla presenza delle intenzioni con training comportamentali tesi a migliorare la capacità di modulare, emozioni, appetiti e ad aumentare in generale l’autocontrollo. Tra questi training la meditazione mindfulness sta suscitando sempre maggiore interesse anche a livello sperimentale e la letteratura sulle basi e gli effetti neurobiologici di tale pratica sta crescendo a livello esponenziale.[3]

Questi studi stanno fornendo evidenze sempre più chiare sulla capacità della pratica mindfulness di aumentare le capacità di autocontrollo, ripristinando le funzioni dei sistemi cerebrali che sembrano essere il bersaglio delle condizioni di dipendenza, come la corteccia prefrontale mediale, la corteccia anteriore cingolata.

La parola inglese Mindfulness è stata scelta per tradurre il termine Pali (la lingua indiana delle prime scritture buddiste) “sati”: consapevolezza, attenzione, ricordo. Si tratta di un training mentale a tre componenti: 1) “autoregolazione dell’attenzione” (mantenuta sull’esperienza immediata); 2) “orientamento attitudinale” (curiosità, apertura, accettazione); 3) “Intenzione: controllo volontario costantemente “ricordato”” e con cui si riporta l’attenzione sull’oggetto prescelto ogni volta che interviene una distrazione.

Esercitando questi stati e questi processi mentali, la pratica della Mindfulness svilupperebbe così le capacità di autoregolazione, di attenzione e in generale la metacognizione, cioè la consapevolezza dei contenuti di coscienza, addestrando peraltro ad osservarli in modo non giudicante, senza coinvolgimento. La possibilità di usare l’attenzione per intercettare e riconoscere i processi mentali è la precondizione del controllo del comportamento e la regolazione delle emozioni e dell’impulsività. In queste senso si potrebbe dire che la Mindfulness può allenare la capacità di rispondere agli stimoli in modo riflessivo piuttosto che riflesso.

Numerose ricerche hanno conclusivamente dimostrato che qualunque tipo di addestramento, anche i training mentali come la mindfulness, modificherebbero le strutture e i processi cerebrali per effetto di meccanismi e fenomeni neuroplastici[4].

Studi di neuroimmagine indicano che il training mindfulness migliora l’attività funzionale e la connettività inibitoria verso i contri impulsivi della corteccia anteriore cingolata e della corteccia prefrontale[5], quei circuiti cioè attraverso cui si realizzano i processi di autocontrollo e di regolazione delle emozioni e che nelle dipendenze risultano disfunzionali[6]. Ciò potrebbe spiegare perché il training alla mindfulness porta alla riduzione del craving e del consumo di sostanze oggetto di dipendenza[7].

La pratica della mindfulness sembra avere effetto anche se i soggetti dipendenti che partecipano allo studio sono inconsapevoli che questa pratica può contribuire a ridurre il craving e l’effettivo consumo della sostanza. Tabagisti sottoposti a un addestramento alla mindfulness di 2 settimane per un totale di 5 ore ma informati che si tratta di un’attività finalizzata soltanto a diminuire il livello di stress percepito, hanno ridotto il consumo di sigarette del 60%[8].

Sono state formulate numerose ipotesi per spiegare in che modo la mindfulness riesce a produrre questi risultati, ne parleremo in un prossimo post. Ma anche in assenza di una chiara e condivisa spiegazione dei meccanismi d’azione appare evidente che questa forma di training mentale può costituire un efficace strumento in più nell’armamentario terapautico con cui si tenta di intervenire nelle dipendenze.

Stefano Canali

 

Riferimenti bibliografici

[1] Sinclair, J.D. (2001) Evidence about the use of naltrexone and for different ways of using it in the treatment of alcoholism. Alcohol Alcohol. 36, 2–10

[2] Houben, K. et al. (2010) I didn’t feel like drinking but I don’t know why: the effects of evaluative conditioning on alcohol-related attitudes,craving and behavior. Addict. Behav. 35, 1161–1163

[3] si veda ad esempio: Tang, Y.Y. et al. The neuroscience of mindfulness meditation. Nat. Rev. Neurosci. 2015; 16: 213–225; Holzel, B.K. et al. How does mindfulness meditation work? Proposing mechanisms of action from a conceptual and neural perspective. Perspect. Psychol. Sci. 2011; 6: 537–559¸ Marchand WR. Neural mechanisms of mindfulness and meditation: Evidence from neuroimaging studies. World J Radiol. 2014, 6(7):471-9; Keng SL, Smoski MJ, Robins CJ. Effects of mindfulness on psychological health: a review of empirical studies.Clin Psychol Rev. 2011 31(6):1041-56; Tang, Y.Y. et al. Improving executive function and its neurobiological mechanisms through a mindfulness-based intervention: advances within the field of developmental neuroscience. Child Dev. Perspect. 2012; 6: 361–366; Chiesa, A. and Serretti, A. Are mindfulness-based interventions effective for substance use disorders? A systematic review of the evidence. Subst. Use Misuse. 2014; 49: 492–512

[4] Tang, Y.Y. and Posner, M.I. (2014) Training brain networks and states. Trends Cogn. Sci. 18, 345–350
Hillman, C.H. et al. (2008) Be smart, exercise your heart: exercise effects on brain and cognition. Nat. Rev. Neurosci. 9, 58–65.

[5] Tang, Y.Y. et al. (2013) Brief meditation training induces smoking reduction. Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. 110, 13971–13975; Tang, Y.Y. et al. (2009) Central and autonomic nervous system interaction is altered by short-term meditation. Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. 106, 8865–8870; Tang, Y.Y. et al. (2010) Short term mental training induces whitematter changes in the anterior cingulate. Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. 107, 16649–16652

[6] Goldstein, R.Z. and Volkow, N.D. (2011) Dysfunction of the prefrontal cortex in addiction: neuroimaging findings and clinical implications. Nat. Rev. Neurosci. 2, 652–669; Koob, G.F. and Volkow, N.D. (2010) Neurocircuitry of addiction. Neuropsychopharmacology 35, 217–238.

[7] Brewer, J.A. et al. (2013) Craving to quit: psychological models and neurobiological mechanisms of mindfulness training as treatment for addictions. Psychol. Addict. Behav. 27, 366–379; Bowen, S. et al. (2014) Relative efficacy of mindfulness-based relapse prevention, standard relapse prevention, and treatment as usual for substance use disorders: a randomized clinical trial. JAMA Psychiatry 71, 547–556.

[8] Tang, Y.Y. et al. (2013) Brief meditation training induces smoking reduction. Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. 110, 13971–13975.

 

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