Creatività, volontà e sostanze psicoattive

Nel 1822, Thomas De Quincey per primo tratteggiava un aspetto fondamentale di un topos della riflessioni tra droghe e creatività: la compromissione della volontà e della capacità di creare legate all’uso delle sostanze psicotrope. Nelle Confessioni di un mangiatore d’oppio, una delle più lucide ed eleganti cronache di una tossicodipendenza mai raccontate, scriveva: «Il consumatore d’oppio non perde, infatti, né la sua sensibilità morale né le sue aspirazioni. Desidera, agogna, ardentemente come non mai, di attuare ciò che gli sembra possibile, ciò che sente comandato dal proprio senso del dovere; ma la sua capacità, non d’agire soltanto, ma, addirittura, di tentar d’agire, è infinitamente inferiore al suo apprezzamento astratto del possibile. Egli giace sotto il peso immane d’un incubo; vede tutto ciò che sarebbe felice di compiere, ma è come un uomo inchiodato al letto dal languore mortale d’una paralisi e costretto a evadere insultare e oltraggiare l’oggetto del suo più tenero amore; darebbe la vita per alzarsi in piedi, per camminare, ma è impotente come un infante e non può nemmeno tentare di muoversi.»

Allo stesso modo di De Quincey, anche Charles Baudelaire sottolineava i funesti effetti delle droghe sui processi della volizione e sulle capacità di tradurre in atto i pensieri e le intuizioni. Baudelaire aveva sperimentato su se stesso che anche l’euforia dell’hashish, «la beatitudine calma e immota», ciò che gli orientali chiamano kif, si pagava con la sottrazione della volontà. E nessun sentimento è più avverso alla creazione artistica, che vive di impeto, curiosità, voglia di fare, della «rassegnazione gloriosa» indotta dall’effetto acuto dell’hashish. Con ciò Baudelaire metteva in guardia «gli utilitaristi» delle droghe alla ricerca della soluzione farmacologia dei problemi di creatività: «ammettiamo per un istante che l’hashish dia, o quantomeno aumenti la genialità; essi dimenticano che la natura propria dell’hashish è quella di diminuire la volontà; e, così, esso concede con una mano ciò che toglie con l’altra, cioè l’immaginazione senza la facoltà di approfittarne.»

Altre droghe, altri tempi, altra cultura, altre aspettative dal consumo rispetto a Baudelaire, quelle di Aldous Huxley, ma stesse conclusioni a proposito dell’impatto delle droghe sull’immaginazione e sulla facoltà di creare concretamente. A partire dagli anni Cinquanta, l’autore di Brave new world aveva sperimentato su se stesso gli effetti delle sostanze psichedeliche, come la mescalina e l’LSD, sotto la guida dello psichiatra Humphry Osmond. Le esperienze raccolte e le riflessioni intorno ad esse confluiranno nella stesura del libro Le porte della percezione.

In tale opera Huxley aveva individuato gli effetti disgregativi sulla volontà di queste sostanze, pur riconoscendo ad esse il potere di dilatare la percezione, amplificare la coscienza, la capacità di aiutare taluni individui, altrimenti incapaci, a soddisfare il fondamentale bisogno di trascendenza: «Le impressioni sono molto intensificate e l’occhio ritrova un po’ dell’innocenza di percezione dell’infanzia, quando il senso non era immediatamente e automaticamente subordinato al concetto. L’interesse per lo spazio è diminuito e l’interesse per il tempo cala quasi a zero. Sebbene l’intelletto rimanga inalterato e sebbene la percezione sia enormemente migliorata, la volontà subisce un profondo cambiamento in peggio. Il consumatore di mescalina non vede ragione di fare niente in particolare e trova la maggior parte delle cause per le quali, in tempi normali, egli era pronto ad agire e soffrire, profondamente prive di interesse. Egli non può preoccuparsene, per la buona ragione che ha di meglio da pensare».

Baudelaire aggiungeva che anche supponendo possibile sfuggire all’apatia e sfruttare la conturbante percezione drogata si doveva rammentare il pericolo dell’assuefazione, anche solo psicologica. «Tutte le abitudini di questo genere si trasformano ben presto in necessità. Colui che farà ricorso a un veleno per pensare ben presto non potrà più pensare senza veleno».

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Stefano Canali

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