Craving. Il desiderio irresistibile è un concetto desiderabile?

Il craving è solitamente e ingenuamente inteso come il desiderio prepotente, il bisogno irrefrenabile dell’uso della sostanza. Non è chiaro quale debba essere l’intensità del desiderio perché questo diventi un craving, né come si debba e si possa misurare il craving, anche perché, fondamentalmente, non esiste una definizione di desiderio univoca e descrivibile in termini obiettivi. Il desiderio è un costrutto relativo a un contesto storico culturale che tende a dar forma, in modo sfocato, a un insieme di elementi del vissuto psichico generalmente correlato a un insieme di azioni, a loro volta relative a una serie multiforme e sfumata di contingenze e situazioni.

Ernst Ludwig Kirchner, Artistin (Marzella), 1910, Brücke-Museum Berlin

A dispetto del suo carattere controverso e della sua evidente debolezza e opacità epistemologica, il concetto di craving è uno degli elementi centrali dei principali modelli teorici delle dipendenze. Col DSM 5 peraltro il craving è tornato ad essere uno dei criteri diagnostici nel disturbo da uso di sostanze.

Breve storia contemporanea del termine craving

Il carattere confuso del concetto di craving era stato già ampiamente riconosciuto alla metà del secolo scorso Nel 1954, in un incontro specificatamente dedicato all’analisi di questa idea e del suo uso, l’Expert Committees on Mental Health and on Alcohol dell’Organizzazione Mondiale di Sanità (WHO) concludeva il termine craving era inappropriato per l’uso tecnico scientifico a causa del suo diffuso utilizzo nel linguaggio comune col senso di desiderio imperativo e irresistibile.

Veniva così proposto il suo abbandono e la sua sostituzione con descrizioni ritenute (a mio parere a torto) non inquinate dal senso comune: 1) ”dipendenza fisica ” come sostituto del ”Craving fisico” riferibile ai sintomi della sindrome di astinenza, e 2) ”Desiderio patologico” come sostituto della ”craving simbolico”, e comprendente tutti gli aspetti del desiderio della sostanza presenti al di fuori della sindrome di astinenza (WHO Expert Committees on Mental Health and on Alcohol, 1955).

Nonostante l’indicazione del gruppo WHO, l’uso del termine craving continuava a resistere, in particolare il craving fisico, che diveniva la principale impalcatura sintomatica del modello medico della dipendenza, mentre gli aspetti psicologici e comportamentali finivano per restare in gran parte ignorati (Rankin et al., 1979).

Tra i clinici che più contribuirono alla persistenza dell’uso del concetto di craving fu Elvin Morton Jellinek, uno dei membri del comitato WHO che nel 1954 aveva suggerito il bando scientifico del termine.

Jellinek è stato tra quelli che hanno maggiormente contributo all’affermazione del modello di dipendenza come malattia. Nella teoria di Jellinek il craving occupa una posizione centrale, perché considerato il determinante primario nell’avvio della dipendenza, nelle ricadute, nel consumo sregolato e nella perdita del (Jellinek, 1960).

Verso la metà degli scorsi anni Settanta, il modello medico di dipendenza fu contestato dall’emergente approccio neocomportamentista. Questa prospettiva criticava il ruolo teorico assegnato ai fattori soggettivi, in quanto difficilmente misurabili. Il L’indirizzo neocomportamentista enfatizzava le variabili osservabili in modo quantitativo, in particolare quelle comportamentali manipolabili attraverso la metodologia del condizionamento operante skinneriano.

In quegli anni tuttavia il modello neocomportamentista portava a una straordinaria inflazione concettuale del termine craving. Questo veniva indagato in relazione alle numerose tipologie di stimoli associati nell’ambiente esterno o nell’organismo e riferito a un continuum di intensità del desiderio verso la sostanza, indicato per questo con la generica definizione di “disposizione al bere” (Rankin et al., 1979).

Kozlowski e Wilkinson (1987) hanno criticato questa definizione così ampia, sostenendo che definire il craving come una “disposizione al bere” equivaleva a chiamare paura, l’emozione ben più acuta e disturbante del terrore.

Vista da questa prospettiva, la difficoltà si poneva nella scelta del punto sul continuum dove l’intensità del desiderio è sufficiente per essere identificata col craving. È stato Robert West (1987) a sottolineare questa difficoltà, sostenendo l’assoluta necessità di usare scale in grado di misurare tutti i livelli del craving.

Alla fine degli anni Ottanta, nella perdurante assenza di un consenso minimale sul concetto di craving alcuni studiosi hanno messo in discussione l’utilità stessa del termine in clinica e nella ricerca. Hughes (1987) ha sostenuto che l’inutilità del costrutto dipendeva soprattutto dalla mancanza di un accordo sui riferimenti che esso doveva avere nella dimensione cognitiva e in quella comportamentale.

West (1987) invece ha criticato l’ambiguità qualitativa e quantitativa del termine combinata con l’assenza di criteri obiettivi attraverso cui arrivare a una definizione tecnica precisa e univoca.

Lo stesso anno Alan Marlatt (1987) proponeva invece opposte considerazioni. Marlatt suggeriva di mantenere il termine craving nell’accezione di forma di attaccamento psicologico. Secondo Marlatt il craving sarebbe “La dinamica afferrante che si manifesta nella mente quando un individuo persegue i suoi attaccamenti” (Marlatt, 1980, p.43). Questa dinamica sarebbe innescata da segnali interni o esterni. Ad esempio, quando un soggetto dipendente pensa o si trova di fronte a stimoli associati alla sostanza.

Marlatt ha definito il craving come ”il desiderio soggettivo per gli effetti della sostanza”, distinguendolo dalla motivazione, dal bisogno, che possono o meno verificarsi dopo l’esperienza del craving. “Il craving è un termine desiderabile”, ha affermato Marlatt, “un concetto chiave nella psicologia dell’attaccamento per oltre 2500 anni a partire dalle definizioni dalle scuole orientali come il buddismo” (Marlatt, 1987, pp. 42-43).

Nel 1991, il National Institute on Drug Abuse (NIDA) ha organizzato un ennesimo incontro sul craving. E di nuovo è stato impossibile raggiungere un consenso sulla natura e sull’utilità del concetto di craving.

Tuttavia, a dispetto della mancanza di accordo scientifico il craving rimane ancora oggi di notevole interesse per i ricercatori (MacKillop e Monti, 2007). Ed anzi, negli ultimi anni sta godendo di grandi e rinnovate attenzioni della ricerca soprattutto in relazione alla reattività verso gli stimoli associati alla sostanza, alla ricaduta, ai trattamenti farmacologici, ai suoi numerosi modulatori. Correlazioni che sono valutate sia da self-report che da misure obiettive, incluse le neuroimmagini. In ogni caso, quali che siano la potenza e la risoluzione degli strumenti per rilevare e misurare queste correlazioni, il problema di fondo resta lo stesso: la natura elusiva e sfuggente del costrutto. Per questo è verosimile che i progressi nella ricerca e nella clinica in quell’insieme variabile di fenomeni che indichiamo col termine craving verranno soprattutto dal lavoro analitico e definitorio prima che dallo sviluppo degli strumenti di misurazione e delle tecnologie di indagine. L’edizione 2017 della Scuola di Neuroetica della SISSA intende dare un contributo in questa direzione.

 

Stefano Canali

 

Riferimenti bibliografici

Jellinek, E.M., 1960. The Disease Concept of Alcoholism. Hillhouse Press, New Haven.

Kozlowski, L., Wilkinson, D., 1987. Use and misuse of the concept of craving by alcohol, tobacco, and drug researchers. Br J Addict 82, 31–36.

MacKillop, J., Monti, P., 2007. Advances in the scientific study of craving for alcohol and tobacco. In: Miller, P., Kavanagh, D. (Eds.), Translation of Addictions Science into Practice. Elsevier, Oxford, pp. 189–209.

Marlatt, G., 1987. Craving notes. Br J Addict 82, 42–43.

Rankin, H., Hodgson, R., Stockwell, T., 1979. The concept of craving and its measurement. Behav Res Ther 17, 389–396.

WHO Expert Committees on Mental Health and on Alcohol, 1955. The ‘craving’ for alcohol. Q J Stud Alcohol 16, 33–66.

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