Stati di allucinazione. L’isolamento sensoriale e l’uso di sostanze psicoattive

Francis Bacon, Studio della balia della Corazzata Potemkin, 1957, Olio su tela. 198X142cm. Stadelsches Kunstinstitut – Francoforte

Si ritiene comunemente che il consumo e l’abuso di sostanze psicoattive siano fenomeni caratteristici della società moderna e che le droghe vengano usate nel tentativo di risolvere, o di eludere i disagi e gli stress, ovvero anche gli stimoli al consumo della contemporaneità. Questa convinzione trova conforto nella attuale epidemica diffusione delle sostanze che modificano il funzionamento del sistema nervoso e quindi modulano gli stati del cervello e della mente: psicofarmaci e droghe.

Le indagini storiche, antropologiche ed etnologiche, hanno tuttavia dimostrato che l’uso di droghe e più in generale lo psicotropismo[1], cioè la ricerca della manipolazione della coscienza, dell’alterazione degli stati della mente e del controllo del comportamento sono una costante della storia e delle civiltà umane.

Psicotropismo

Lo psicotropismo si presenta, con metodologie e percorsi diversi, in tutte le epoche e a tutte le latitudini geografiche e sociali. L’uso delle sostanze psicoattive è solo una tra le innumerevoli tecniche che la specie umana ha elaborato per modificare gli stati di coscienza. Pratiche di allucinazione, trance, estasi storicamente e geograficamente assai diffuse hanno infatti usato come attivatori anche numerose ed elaborate tecniche comportamentali, come ad esempio la meditazione, la suggestione, l’ipnosi, l’autoipnosi, spesso associate a canti, movimenti e danze stereotipate, oppure a stimoli percettivi, suoni, musica[2].

Ma quali sono le ragioni di un fenomeno così vasto e radicato nella storia dell’umanità? Perché l’uomo cerca con tanta dedizione di agire sugli stati di coscienza e di modificare artificialmente i processi mentali, nonostante tutti i rischi e i danni che ciò può comportare? La paradossalità dello psicotropismo forse si risolve se si tiene presente il fatto che l’uomo è l’animale con la più elevata complessità psicologica e soprattutto dotato di coscienza. Vivendo l’esperienza della propria coscienza, l’uomo sembra portato a controllare gli stati mentali che percepisce, a riprodurre in maniera artefatta tonalità emotive piacevoli, a fugare – con ogni strumento valido a tale scopo – le afflizioni e il dolore. In quanto essere intelligente, l’uomo intende controllare la sua coscienza con strumenti artificiali, le droghe, così come controlla con utensili da lui messi a punto i fenomeni naturali e le cose che maggiormente lo coinvolgono.

In questo senso, lo psicotropismo è un prodotto dell’evoluzione del sistema nervoso e della mente umana: uno degli esiti – o effetti collaterali direbbe qualcuno – della loro complessità.

Allo stesso tempo si può ipotizzare che la tensione verso la modificazione degli stati psicologici rappresenti per l’uomo l’effetto della necessità di stimoli mutevoli e informazioni diversificate. Un bisogno di novità che è conseguenza della complessità e della potenza computazionale del sistema nervoso umano, delle logiche del suo funzionamento. Ricordiamo a questo proposito gli stupefacenti risultati delle ricerche sulla deprivazione sensoriale, iniziate nel 1951 alla McGill University di Montreal da Donald Olding Hebb, uno dei padri delle e delle scienze del comportamento contemporanee. Hebb aveva pubblicato due anni prima The Organization of Behavior: A Neuropsychological Theory, uno dei libri più influenti della storia delle neuroscienze, in cui dava una articolata descrizione della legge che porta il suo nome e che spiega il modo in cui un apprendimento viene codificato a livello delle reti neurali nel cervello. Nel 1951, finanziato dal Defence Research Board of Canada, Hebb, con Woodburn Heron e altri collaboratori, iniziava una serie di studi sugli effetti neurali e psicologici dell’esposizione prolungata ad ambienti percettivamente monotoni e deprivati. La ricerca era di grande interesse per le forze armate, l’industria e il mondo dei trasporti. A partire dalla seconda guerra mondiale, inizialmente sui sommergibilisti e i piloti impegnati nelle lunghe trasvolate e poi sui macchinisti dei treni e sui camionisti, erano stati ripetutamente riportati non solo preoccupanti effetti su funzioni critiche come l’attenzione, la prontezza di riflessi e i processi cognitivi, ma anche episodi di tipo psicotico, con alterazione della percezione del tempo e dello spazio e la produzione di allucinazioni. Non secondarie, come successivamente indicato da Hebb[3], erano anche le potenzialità che la ricerca aveva per le attività di intelligence, considerato che era da tempo noto l’uso dell’isolamento come strumento per la conduzione di interrogatori o il condizionamento mentale.

Gli studi sull’isolamento sensoriale

Illustrazione del cubicolo per l’isolamento sensoriale. Da: Woodburn Heron, The Pathology of Boredom. Scientific American, gennaio 1957

Lo studio prevedeva il confinamento di soggetti volontari sani all’interno di cubicoli isolati dall’esterno e acusticamente. Più precisamente i soggetti erano chiamati a giacere su un letto all’interno del cubicolo per almeno 24 ore e indossando una serie di dispositivi per limitare ogni tipo di afferenza sensoriale: una maschera traslucida sugli occhi per impedire la percezione visiva, guanti imbottiti sino al gomito per limitare gli stimoli tattili, un cuscino a forma di U rovesciata sul capo a coprire le orecchie. Una macchina elettroencefalografica monitorava costantemente l’attività cerebrale dei soggetti durante l’esperimento.

Pochi minuti dopo l’inizio del confinamento i soggetti riferivano difficoltà a concentrarsi e a pensare in modo ordinato. Col passare del tempo questi fenomeni psicologici si intensificavano e subentravano anche alterazioni dell’umore. Altri effetti riportati risultavano tuttavia più significativi e di fatto stupefacenti, tanto da far decidere Hebb di tenerli segreti per tre anni, in modo tale di avere tempo per far luce con più chiarezza sulla loro natura. Col protrarsi dell’isolamento sensoriale, la gran parte dei soggetti riferiva di vedere “immagini”. Come racconta Heron[4], una persona riportava ripetutamente la visione di una roccia sotto l’ombra di un albero, un altro di vedere foto di bambini e non di riuscire a smettere nonostante la volontà cosciente di controllare il pensiero. L’isolamento prolungato sembrava suscitare sogni di estremo realismo durante la veglia. Col protrarsi del tempo dell’isolamento alcuni soggetti andavano incontro a franche allucinazioni, con fenomeni visivi percepiti simili a quelli indotti dalla mescalina, con punti di luce, linee o schemi geometrici progressivamente più complessi e astratti. Questi poi si evolvevano in vere e proprie scene integrate, come ad esempio, processioni di scoiattoli con sacchi sulle spalle, animali preistorici o file di occhiali da sole che marciavano in strada. I soggetti poi riferivano di poter inquadrare singole parti o nuove prospettive di queste visioni semplicemente muovendo gli occhi, come se stessero osservando delle scene reali.

Le allucinazioni riguardavano anche altri sistemi sensoriali oltre la vista. I soggetti raccontavano infatti di poter sentire rumori e voci nelle visioni, oppure di avere allucinazioni uditive pure, senza immagini, talora anche complesse come l’ascolto di melodie. Si presentavano inoltre anche allucinazioni tattili o motorie, come la sensazione di essere toccati o di muovere la mano verso un oggetto. Alcuni riferivano esperienze di uscita dal corpo e di poter osservare, volando, dall’alto, se stessi sul letto.

Numerosi altri ricercatori in quegli anni avviavano studi sugli effetti dell’isolamento sensoriale, tra cui – uno dei più controversi – John C. Lilly, negli anni seguenti molto attivo anche nella ricerca sulle sostanze psichedeliche. Questi, per conto del Public Health Service Commissioned Officers Corps degli Stati Uniti iniziava nel 1954 le sue ricerche sugli effetti dell’isolamento nelle vasche di deprivazione sensoriale presso il National Institute of Mental Health. Alla storia di queste ricerche si ispira molto liberamente Stati di allucinazione, famoso film di Ken Russell interpretato da William Hurt.

Hebb e i suoi collaboratori spiegavano questi fenomeni come l’effetto di una anormale attività del cervello innescata dal deficit di stimoli a livello della sostanza reticolare, una struttura profonda del cervello al centro della regolazione degli stati di coscienza, veglia e sonno. Essi ritenevano che l’attivazione e il mantenimento delle normali funzioni del sistema nervoso centrale dipendesse dalle stimolazioni sensoriali provenienti dall’ambiente esterno. Di conseguenza, in assenza di questi stimoli, il cervello finiva per produrre eventi percettivi dal suo interno in modo tale da conservare un adeguato livello di stimolazione e quindi la sua stessa funzionalità.

Nella sostanza questa idea è peraltro conforme ad alcune degli attuali modelli di spiegazione delle allucinazioni, come ad esempio la teoria del monitoraggio formulata da Fletcher e Frith[5]. Secondo questa ipotesi, in assenza di stimoli esterni le distorsioni percettive sono presumibilmente generate internamente ed erratamente attribuite a una origine esterna per una anomalia nei processi che normalmente integrano i dati di origine interna con l’effettiva esperienza del mondo esterno.

Così, come osservava Christopher Burney nel libro Solitary confinement, crudo resoconto dei 526 giorni passati in una cella di isolamento durante la seconda guerra mondiale, “Variety is not the spice of life; it is the very stuff of it.”, “la varietà non è solo il sapore della vita; è la stessa materia di cui è fatta”. E uno degli strumenti di cui l’uomo si è servito per produrre novità anche in assenza di effettivi cambiamenti nell’ambiente esterno sono state le sostanze psicoattive.

Stefano Canali

Riferimenti bibliografici

[1] Pogliano, Claudio, Pharmakon. Storia delle psicotropismo. Vol. I e vol. II, Casamassima, Udine, 1990 e 1991.

[2] Si pensi ad esempio a rituali gnawa del Marocco, dei dervisci Mevlevi turchi o del nostro tarantismo.

[3] Hebb, D. O. (1961). Introduction. In P. Solomon, J. Mendelson, P. Kubzansky, R. Trumbull, P. H. Leiderman, & D. Wexler (Eds.), Sensory Deprivation: A Symposium Held at Harvard Medical School (pp. 6–7). Cambridge: Harvard University Press, pp. 6-7.

[4] Heron, Woodburn ,The Pathology of Boredom. Scientific American, 1956, 196,1, pp. 52-56.

[5] Fletcher PC, Frith CD (2009) Perceiving is believing: A Bayesian approach to explaining the positive symptoms of schizophrenia. Nat Neurosci. 10:48–58.

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