Automi, zombie o persone responsabili? Quanto è libera la volontà nelle dipendenze?

Nicolas-Sébastien Adam, Prometeo in catene, 1762

Secondo la prospettiva biomedica ortodossa la dipendenza è un disturbo cronico e recidivante, cioè una malattia da cui tendenzialmente non si guarisce e caratterizzata da numerose ricadute. Ciò accade, sempre secondo il modello biomedico di spiegazione, perché l’uso reiterato delle droghe compromette i meccanismi cerebrali e psicologici attraverso cui si esercitano i processi decisionali, il libero arbitrio. Così anche quando i tossicodipendenti esprimono l’intenzione di smettere, non riescono a farlo, anzi non possono farlo perché le sostanze hanno posto fuori gioco la capacità di controllare in modo libero e volontario l’uso che ne fanno.

In un citatissimo articolo di Alan Leshner uscito nel 1997 su Science, l’allora direttore del National Institute of Drug Abuse statunitense scriveva che nei soggetti vulnerabili l’uso prolungato di sostanze modifica le strutture e le funzioni del sistema nervoso centrale tanto da far scattare “un interruttore metaforico nel cervello” che porta alla “condizione di dipendenza, caratterizzata dalla ricerca e dall’uso compulsivo”[i]. Per approfondimenti su questa prospettiva si veda questo post.

Rispetto a questa prospettiva, tuttavia, l’esperienza sul territorio, la ricerca etnografica sulle dipendenze e numerosi studi longitudinali sull’evoluzione di questa cosiddetta malattia cronica e recidivante, sembrano indicare una realtà opposta.

Studi epidemiologici estensivi rivelano che la gran parte dei soggetti con problemi di abuso di sostanze o dipendenze smette, e nella gran parte dei casi smette[ii] senza aiuto o trattamento[iii]. Cosa peraltro già esemplarmente dimostrata dalle ricerche di Lee Robins sulle truppe statunitensi impegnate nella guerra del Vietnam, flagellate da una epidemia di abuso e dipendenza da eroina (circa il 20% del soldati)[iv]. Robins aveva rilevato che tra queste migliaia di soldati eroinomani solo il 12% restava tale al rientro e che la remissione avveniva generalmente senza nessun ricorso alle cliniche di disintossicazione per veterani appositamente istituite. Per approfondire questo argomento si veda il seguente post.

La cronicità e la gravità che viene attribuita alla dipendenza potrebbe dipendere da una grave distorsione clinica, dal fatto che gli studi biomedici sulle dipendenze sono condotti su soggetti che afferiscono ai servizi per le dipendenze. Questi pazienti rappresentano solo una piccola frazione degli individui che consumano sostanze e che anche vanno incontro a uso problematico e dipendenze. E sono quei consumatori di sostanze che sviluppano serie problematiche comportamentali o somatiche e generalmente afflitti da altri importanti disturbi psichiatrici. In questo caso l’immagine che abbiamo delle dipendenze potrebbe somigliare a quella che si avrebbe dell’influenza se si considerassero solo quelle persone costrette al ricovero per questa comune infezione.

È allora forse necessario un profondo riesame del concetto di dipendenza come malattia cronica e una più vasta ricerca sui fattori che incidono sull’evoluzione del rapporto tra individui e sostanze. La comprensione del reale decorso delle dipendenze è un elemento cruciale per la messa a punto di strategie di prevenzione e trattamento più efficaci di quelle attuali, purtroppo così scarsamente incisive.

 

Distinguere e misurare un comportamento volontario

Ogni comportamento, anche i semplici riflessi, è modulato dall’insieme di stimoli impattanti, esterni e interni. Ogni comportamento complesso è sempre anche la risultante del rapporto costi/benefici che gli si attribuisce. E ogni apprendimento, quindi successivamente tutti i comportamenti analoghi, è plasmato dalle sue conseguenze.

Tutte le azioni complesse sono comunque un insieme di elementi riflessi, di azioni automatiche e di comportamenti strumentali guidati da obiettivi e da feedback raccolti itinere.

Ad esempio, il consumo abituale di droghe rimanda a fenomeni di neuroadattamento che inducono l’innesco del desiderio e/o di risposte condizionate, talora anche gesti automatici, rispetto a stimoli associati. Ma l’uso abituale di sostanze comporta anche complesse sequenze comportamentali finalizzate e processi decisionali, come il reperimento dei soldi, la ricerca, l’acquisto, la scelta del posto dove consumare, la valutazione se sia opportuno l’uso al momento (la rinuncia a usare e la deliberata inibizione del craving sono fenomeni molto più comuni di quanto si creda), la preparazione della sostanza e così via. Allo stesso tempo l’uso di droghe spesso implica l’inganno e i sotterfugi, che sono sofisticate manifestazioni di premeditazione, pianificazione, cioè attivo esercizio di deliberata volontà non risposte automatiche, non atti riflessi. Dunque nell’uso di sostanze e nelle dipendenze è in gioco una combinazione di risposte condizionate, automatismi e di scelte deliberate guidate dalla previsione delle conseguenze.

 

Implicazioni logiche del concetto di dipendenza come malattia

Secondo il modello biomedico, il segno cardinale della dipendenza è la reiterazione dell’uso a dispetto delle conseguenze negative. Dunque dal punto di vista logico si potrebbe immaginare un uso delle sostanze non patologico, ovvero anche razionale. Questa condizione si verificherebbe quando le conseguenze negative siano controbilanciate da un qualche tipo di effetti positivi percepiti o effettivamente ottenuti, ad esempio sull’umore, sul livello di energia percepita, nel caso delle sostanze stimolanti o al contrario nell’attenuazione dell’ansia, come potrebbe essere per l’uso degli oppiodi o dell’alcol. Come è tipicamente espresso nel racconto dei soggetti dipendenti, l’uso della sostanza spesso somiglia a una sorta di automedicazione. Ma allora se l’uso reiterato delle droghe scaturisce da una valutazione più o meno consapevole del rapporto costi/benefici è possibile dire che siamo di fronte a un tipo di scelta, non a una compulsione.

È tuttavia assai difficile calcolare il rapporto tra costi e benefici nei comportamenti che hanno conseguenze a lungo termine, soprattutto nel caso dell’uso di sostanze, in cui le conseguenze positive sono immediate, acute, contingenti mentre le conseguenze negative sono ritardate e probabilistiche. Ma ciò vale per tutti i comportamenti associati a una gratificazione immediata e a una potenziale conseguenza negativa. È questo anche il caso della decisione di mangiare l’ennesima fetta di torta a cena essendo a rischio per il diabete di tipo 2, oppure di cedere alla tentazione di tradire il partner magari avendo un rapporto non protetto, di posticipare per l’ennesimo giorno la conclusione di un lavoro in scadenza e così via. In tutti questi casi parliamo sempre di scelte, di esercizio di forme di libero arbitrio. Si potrebbe obiettare che in questi ultimi esempi è assente la forza coercitiva dei processi di tolleranza e della sindrome di astinenza. Tuttavia è ormai noto che questi elementi fisiopatologici occupano uno spazio relativo nei determinismi degli schemi comportamentali delle dipendenze. Nelle dipendenze comportamentali infatti questi elementi sono praticamente assenti.

Al di là della difficoltà di dar conto dell’effettiva volontarietà dei comportamenti associati a ricompense e conseguenze negative sul futuro, resta il fatto che si potrebbe stabilire che l’uso di droghe è volontario anche nelle cosiddette dipendenze verificando se i soggetti che vivono questa condizione sono in grado di smettere decidendolo e in più senza chiedere un trattamento.

Si noti che non stiamo facendo alcun riferimento al fatto che le droghe alterano i processi del sistema nervoso centrale. Lo diamo per scontato. Tutti i comportamenti in modo più o meno acuto modificano il funzionamento del cervello, è l’essenza della fisiologia di questo organo. La questione cruciale è se l’uso abituale delle sostanze produca effetti tali da costringere i soggetti dipendenti a usarle, abolendo le loro capacità di libera scelta.

 

Quanti e come smettono?

Come abbiamo accennato all’inizio, la ricerca epidemiologica e gli studi longitudinali hanno messo in evidenza che dal 76 all’83% di coloro che hanno soddisfatto i criteri per la diagnosi di dipendenza hanno interrotto l’uso all’età di 42 anni. La maggior parte di questi lo fa senza l’assistenza di un aiuto professionale[v].

Queste ricerche indicano che la durata della condizione è legata a una serie di variabili soggettive, ambientali ed economiche, non alla presenza di sintomi di una malattia che bypassa i controlli volontari, come potrebbe essere nel caso dei tic, delle compulsioni, delle azioni riflesse.

La durata delle dipendenze sembra legata alla curva nel tempo del bilancio costi/benefici dell’uso delle droghe. È questa curva rappresenta l’evoluzione nel tempo di un insieme di processi cognitivi e calcoli decisionali: di cambiamenti di significati esistenziali, di valori, di giudizi sulle situazioni e sull’ambiente. Cose che comunque hanno la capacità di modulare gli stati e i processi cerebrali controbilanciando quanto di patologico innescato dall’uso della sostanza. La dipendenza sembra protrarsi in funzione della disponibilità delle sostanze, dalla presenza di altri disturbi psichiatrici e non psichiatrici. È ad esempio noto che la dipendenza da nicotina e alcol duri generalmente molto più a lungo delle altre: si tratta non a caso delle due sostanze più diffuse e più facilmente disponibili.

Altri studi rivelano che la durata della dipendenza è inversamente correlata al livello di istruzione o alle condizioni di disagio materiale. Ciò sembra corroborare l’idea che la persistenza dell’uso abituale di droghe e delle dipendenze è funzione del rapporto costi/benefici e della possibilità per i tossicodipendenti di accedere a alternative gratificanti o a condizioni meno penose, ovvero ancora ad altre prospettive esistenziali. In altre parole, ciò che sembra contare maggiormente sono i fattori che pesano sui pro e i contro dell’uso o dell’abbandono delle sostanze: sul modo in cui viene elaborata più o meno consapevolmente la decisione del futuro rapporto con le droghe.

 

Conclusioni

Dunque, nella dipendenza sembra restare sempre la capacità di scegliere se usare o no la sostanza, e con essa rimane la responsabilità della persona. Di conseguenza, il trattamento e gli interventi preventivi dovrebbero concentrarsi maggiormente su misure volte al miglioramento delle condizioni materiali, all’aumento delle opportunità di vivere attività ricompensanti alternative alle sostanze. Dovrebbero mettere in campo strategie che promuovano le capacità personali di decidere meno impulsivamente, di sfruttare queste opportunità per costruire percorsi di vita e valori più soddisfacenti. Puntare, ancora, allo sviluppo delle capacità di regolazione le emozioni, gestire l’autocontrollo, resistere alle pressioni sociali ed emotive che possono indurre un consumo problematico.

Come è evidente si tratta di indicazioni del senso comune, soprattutto comportamentali, sociali, anche politiche, non mediche, perché proprio la ricerca sembra dimostrare che tutto sommato la medicina non ha e non dovrebbe avere un ruolo primario nella prevenzione e nel trattamento della gran parte delle condizioni di dipendenza. La dipendenza sembra soprattutto espressione di variabili materiali, economiche, ambientali, impattanti sul cervello, ma comunque proprie del piano sociale, attive sul piano sociale. Quel piano che poi è la dimensione dove effettivamente vive la persona, non il solo cervello. La dimensione su cui, tra valori, significati, limiti e condizionamenti più o meno forti, si realizzano le scelte di tutti, incluse le decisioni di chi consuma le sostanze.

Stefano Canali

Riferimenti bibliografici

[i] Leshner AI (1997) Addiction is a brain disease, and it matters. Science;278(5335):45-7.

[ii] K.P. Conway, W. Compton, F.S. Stinson, B.F. Grant, Lifetime comorbidity of DSM-IV mood and anxiety disorders and specific drug use disorders: Results from the National Epidemiologic Survey on alcohol and related conditions

Journal of Clinical Psychiatry, 67 (2006), pp. 247-257.

[iii] F.S. Stinson, B.F. Grant, D. Dawson, W.J. Ruan, B. Huang, T. Saha, Comorbidity between DSM-IV alcohol and specific drug use disorders in the United States: Results from the National Epidemiological Survey on alcohol and related conditions. Drug and Alcohol Dependence, 80 (2005), pp. 105-116

[iv] Robins, L. N., Helzer, J. E., & Davis, D. H. (1975). Narcotic use in Southeast Asia and afterward: An interview study of 898 Vietnam returnees. Archives of General Psychiatry, 32 (8), 955-961.

[v] [v] K.P. Conway, W. Compton, F.S. Stinson, B.F. Grant, Lifetime comorbidity of DSM-IV mood and anxiety disorders and specific drug use disorders: Results from the National Epidemiologic Survey on alcohol and related conditions

Journal of Clinical Psychiatry, 67 (2006), pp. 247-257.

[v] F.S. Stinson, B.F. Grant, D. Dawson, W.J. Ruan, B. Huang, T. Saha, Comorbidity between DSM-IV alcohol and specific drug use disorders in the United States: Results from the National Epidemiological Survey on alcohol and related conditions. Drug and Alcohol Dependence, 80 (2005), pp. 105-116

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