Amfetamine: dalla scienza all’abuso e ritorno

metamfetamine
Pubblicità della Bifetamina Strasenburgh, 1958

Il successo della prima amfetamina in forma volatile, commercializzata come benzedrina e venduta senza prescrizione medica, fu grande ed immediato e non solo per la sua efficacia nella terapia sintomatica delle patologie respiratorie le quali era stato sintetizzato. La conoscenza delle sue proprietà stimolanti, euforizzanti ed anoressizzanti, che il suo scopritore, Gordon Alles, aveva provato su se stesso, si diffuse infatti immediatamente, in particolare, tra gli studenti universitari americani. A ciò contriburono notevolmente gli studi sugli effetti della benzedrina sull’efficienza psicomotoria degli studenti che erano stati avviati alla metà degli anni Trenta dall’Istituto di psicologia dell’Università del Minnesota. Un editoriale apparso nel 1937 sul Journal of the American Medical Association, la più autorevole rivista di medicina americana, imputava a questi studi l’origine di un vasta epidemia d’abuso di benzedrina tra gli studenti universitari, che avevano imparato ad assumere il farmaco per vincere il sonno durante la preparazione degli esami. Alcuni individui avevano scoperto che aprendo gli inalatori si poteva ingerirne il contenuto come singola dose, una quantità straordinaria, venticinque volte superiore a quella necessaria a provocare i tipici effetti stimolanti su un adulto normale. In questa maniera gli studenti riuscivano a rimanere svegli ed attenti per molte notti consecutive. Il fascino delle eccezionali proprietà dell’amfetamina era evidente negli appellativi dati ai vari preparati a base di tale sostanza dall’immaginario studentesco e popolare: medicina di Superman, pillole del cervello, Speed, High, Wake-ups.

In quegli anni, inoltre, l’amfetamina, di cui non si sospettavano gli effetti dipendentigeni, veniva prescritta come antidepressivo e per la cura degli “esaurimenti nervosi”. Ma ciò purtroppo non esauriva le grandi potenzialità commerciali di questa economica e moderna sostanza. All’amfetamina era infatti spalancata la porta di un mercato enorme e facile da aggredire e conquistare, quello delle persone obese, in sovrappeso o maniache dell’aspetto fisico. Questo sicuro affare indusse le case farmaceutiche ad investire massicciamente nella ricerca di derivati dell’amfetamina che avessero minore effetto di attivazione psicologica rispetto a quello anoressizzante. Vennero dunque sfornate numerosissime pillole dietetiche, la cui pubblicità cominciò ad invadere non solo le riviste di medicina, ma anche i rotocalchi femminili. Sfortunatamente però, mentre negli animali di laboratorio l’azione stimolante di tali sostanze risultava essere ridotta rispetto a quella dell’inibizione dell’appetito, negli uomini i due effetti si riproducevano in maniera analoga. Fu così che nei paesi più industrializzati si sviluppò una diffusa dipendenza nei confronti delle pillole dimagranti. Agli inizi degli anni Cinquanta, la gravità di questa nuova epidemia d’abuso era divenuta tale da indurre i vari governi, Svezia in testa, a regolamentare la distribuzione dei prodotti a base di amfetamine.

I primi casi di tossicodipendenza

I primi casi di tossicodipendenza da amfetamina si registrarono sin dalla fine degli anni Trenta ma, di fatto, non crearono allarme nelle organizzazioni sanitarie dei vari stati, nonostante alcuni di questi tossicomani avessero sviluppato forme gravi di psicosi paranoica.

Un nuovo termine gergale si aggiunse presto a quelli già elencati, testimoniando nel linguaggio, la diffusione della presenza dell’amfetamina nella società americana: Truck Drivers. Subito dopo gli studenti, infatti, le persone che facevano maggiore uso di tali eccitanti erano i camionisti, specialmente quelli che compivano lunghi viaggi e dovevano perciò guidare spesso di notte. Questa abitudine produsse immediatamente un aumento di incidenti gravi causati da autisti precipitati in stati psicotici per dosi troppo elevate di amfetamina.

Fu però la Seconda Guerra Mondiale a determinare la più impetuosa e rapida escalation sociale nell’uso di una sostanza psicoattiva mai avvenuta nella storia. L’amfetamina e soprattutto un derivato più potente di essa sintetizzato dai tedeschi, venne distribuita ai soldati, soprattutto ai piloti (da cui un altro nuovo termine gergale, copilots), per aumentarne l’efficienza e sostenerne il morale. Uno storico americano ha calcolato che durante il secondo conflitto mondiale l’esercito statunitense distribuì alle truppe qualcosa come 180.000.000 pillole di amfetamine e che almeno il 10% delle U.S. Armies era costituito da soldati dedito ad un cronico e pesante consumo di amfetamine. Tra i soldati dei corpi speciali, maggiormente addestrati o impegnati in operazioni rischiose, e tra i prigionieri di guerra tale percentuale si alzava sino al 25%. Vari corpi di sanità dei paesi belligeranti, inoltre, conducevano esperimenti scientifici su soldati ignari, volti ad accertare l’utilità e l’opportunità dell’uso delle amfetamine nelle operazioni di guerra.

I tedeschi distribuirono agli alleati giapponesi dell’Asse grandissime quantità di amfetamine, esportando presto verso l’Impero del Sol Levante anche le conoscenze e le tecnologie necessarie alla loro sintesi. A differenza dei tedeschi, però, i giapponesi distribuivano le amfetamine soprattutto alla popolazione civile, nelle fabbriche di munizioni e materiale bellico, per aumentare la produttività. “Ammine della veglia” fu il nome dato dai giapponesi a queste sostanze e che indicava sinteticamente i loro effetti più manifesti ed apprezzati.

Alla fine della guerra, le industrie farmaceutiche nipponiche cercarono di vendere le enormi scorte di amfetamine accumulate con anni di produzione esasperata, attraverso una martellante campagna pubblicitaria che decantava l’efficacia di queste droghe nei casi di depressione, sonnolenza, stanchezza cronica, obesità. La campagna pubblicitaria ebbe un grande successo in quanto sfruttava scientificamente il diffuso stato di frustrazione e sfiducia che si era impadronito del paese, soprattutto dei giovani, in seguito alla sconfitta militare, proponendo un rimedio estremamente economico, rapido e potente. Con gli inizi degli anni Cinquanta, quindi, scoppiò in Giappone una vera epidemia dell’abuso di amfetamine. Una statistica del 1950 rivelava che circa il 5% della popolazione compresa tra i 16 e i 25 anni era costituita da tossicodipendenti dediti all’uso di amfetamine. Un’altra statistica del 1954, invece, dimostrava che su 60 omicidi commessi nel paese, 31 erano in qualche modo in rapporto più o meno diretto con l’abuso di tali sostanze.

L’epidemia venne domata in tre anni con una severa legislazione che regolamentava la produzione di amfetamine e sanzionava il solo possesso di tale sostanza con un minimo di sei mesi di reclusione.

 Psicosi da amfetamine: un modello per la comprensione della follia

Il fenomeno più grave e drammatico di diffusione dell’abuso di amfetamine, tuttavia, fu sicuramente quello verificatosi alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti. Questa epidemia ebbe origine nelle comunità hippy di San Francisco, dove la continua ricerca di nuove esperienze  drogate, soprattutto psichelediche, aveva portato alla scoperta che era possibile potenziare gli effetti dell’LSD accompagnando la sua assunzione con un’iniezione endovenosa di metamfetamina. Da questi gruppi di “pionieri” dell’abuso si distaccarono quindi gli speed freak, cioè a dire quelli che preferivano sperimentare soltanto l’orgasmo intenso del rush e l’essere high che dava l’iniezione endovena di metamfetamina, senza il viaggio allucinato dell’LSD. Gli speed-freak fecero rapidamente proseliti e vennero aiutati in questa nefasta opera di arruolamento coatto da un grave errore di una parte della comunità medica statunitense. Alcuni medici infatti, ignorando i danni causati da Freud e dai molti suoi colleghi di fine Ottocento con la cura dei morfinomani a base di cocaina, cominciarono a prescrivere metamfetamina endovenosa per il trattamento degli eroinomani. Questa irrazionale pratica di disintossicazione, unitamente alla grande fantasia da sempre dimostrata dai tossicomani nella ricerca di nuove forme di esperienza, provocò l’insorgenza di una temibile dipendenza politossica, quella al “bombito“, una miscela di eroina ed amfetamina presa per via endovenosa.

Assunte direttamente nel circolo sanguigno le amfetamine provocano con molta maggiore facilità l’insorgenza di stati psicotici del tutto simili al quadro sintomatologico della schizofrenia paranoide. Fu così che col crescere del numero degli speed-freaks si registrò una sempre più cospicua casistica di psicosi da amfetamina e purtroppo un sempre maggior numero di delitti provocati dalle idee maniacali tipiche di questi stati. Questo campionario di cronica tossicità, non fu soltanto oggetto di interesse giudiziario o criminologico, ma divenne paradossalmente un materiale utile alla comprensione della malattia mentale più oscura: la schizofrenia. Alcuni ricercatori americani, infatti, cominciarono a ipotizzare in quegli anni che le similitudini fenomenologiche tra psicosi amfetaminiche e sintomi paranoidei permettevano di usare le prime come modello sperimentale delle seconde e che la comprensione dei fenomeni biochimici in gioco nelle psicosi amfetaminiche avrebbe gettato finalmente luce sui meccanismi patologici in azione nel cervello degli schizofrenici. Furono tentati anche controversi esperimenti di psicosi indotta da amfetamine su soggetti sani per capire fino a che punto tale modello fosse valido. L’amfetamina così, pur tra molti interrogativi di carattere etico, tornava ad essere un farmaco, o meglio un bisturi chimico per scoprire, nell’intricata geografia molecolare del cervello, le chiavi della follia.

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Stefano Canali

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